il DECALOGO
Ger 31,31“Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. 32Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. 33Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo.
Dio offre all’uomo una alleanza
Sono parole che il Signore ha rivolto al suo popolo, tramite il profeta Geremia, annunziando una nuova alleanza, il rinnovamento dell’alleanza. In Gesù si è realizzata questa nuova alleanza e nella Eucaristia noi quotidianamente celebriamo la nuova ed eterna alleanza, cioè una relazione autentica e profonda con il Signore.
Vogliamo dedicare questo tempo di meditazione al grande tema della alleanza, della fedeltà che Dio propone per sé e chiede al suo popolo. Nella prospettiva dell’anno sacerdotale, con il tema “Fedeltà di Cristo e fedeltà del sacerdote”, sviluppiamo questa grande idea della fedeltà, cioè della adesione autentica, costante e gioiosa della alleanza.
Nella prospettiva della nuova alleanza, realizzata dal Cristo, meditiamo però il documento fondamentale della alleanza proposta ai padri, quella scritta su tavole di pietra, quella che conosciamo come il Decalogo: la legge di Dio in sintesi, essenziale.
Rileggiamo l’alleanza antica nella prospettiva del cuore nuovo donato da Cristo e realizzato nella sua Pasqua, per cui non ci accontentiamo di ripensare allo schema antico, ma vogliamo contemplare l’azione nuova dello Spirito di Gesù Cristo che porta a compimento la legge: non più su tavole di pietra, ma una legge scritta nel nostro cuore.
Il nostro primo passo consiste nel meditare il capitolo 19 del Libro dell’Esodo, laddove si presenta l’arrivo di Israele al Sinai e la preparazione della alleanza. Al capitolo 20, infatti, viene presentato il testo del Decalogo come la sintesi delle parole pronunciate da Dio. Noi ci mettiamo nei panni di Israele, del popolo di Dio liberato dalla schiavitù dell’Egitto, che arriva, dopo alcuni mesi di viaggio nel deserto, alle pendici del monte Sinai e lì si accampa.
Israele è accampato nel deserto davanti al monte. Sono due elementi importanti della simbologia biblica.
Il deserto è l’ambiente difficile, è la terra arida, faticosa da vivere, che non ha acqua ma serpenti velenosi, è la terra dove non si sta, si attraversa per andare altrove. Il deserto è il luogo della prova, della verifica delle forze dell’uomo. Si può sognare il deserto come ambiente di intimità, di quiete, di solitudine, ma in realtà il deserto è l’ambiente doloroso dello scontro, della paura, della fuga. Il deserto è il lato negativo della nostra vita.
Israele è accampato nel deserto, ma non è quella la sua terra; è uscito dall’Egitto per tendere alla terra promessa, ma deve attraversare il deserto e lungo questa attraversata desertica si ferma ai piedi della montagna.
Il monte è, nel linguaggio biblico, il luogo dell’incontro; ogni montagna è la terra che si alza verso il cielo e, simbolicamente, si percepisce l’alto come il luogo di Dio; salire sulla montagna dà l’impressione di avvicinarsi a Dio.
La cima del monte rappresenta, nell’immaginario comune, il luogo di incontro tra l’alto e il basso: Dio scende, io salgo e sulla cima ci incontriamo. Il monte Sinai diventa così il segno di questo incontro. Dal deserto Mosè sale sul monte e lì incontra il Signore che è sceso per incontrare il suo popolo, il rappresentante del suo popolo. Sul monte il Signore dona la sua legge, ma prima – nel racconto dell’Esodo – troviamo una lunga serie di parole preparatorie che noi meditiamo proprio come preparazione.
Mosè, il grande mediatore
Es 19,2Israele si accampò davanti al monte. 3Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: “
C’è in Mosè il desiderio di arrivare a Dio. Aveva ricevuto questo incarico fin dall’inizio, quando il Signore gli era apparso dal roveto ardente e gli aveva detto che, una volta portato fuori il popolo dall’Egitto, avrebbe servito Dio su quel monte. Ormai la prima parte dell’opera è compiuta: Mosè ha tirato fuori il popolo dalla schiavitù, adesso sale verso Dio ed è il Signore che lo chiama. All’inizio di tutto c’è una chiamata, una invocazione; è il Signore che ha preso l’iniziativa, continua a prendere l’iniziativa di rivolgere la parola al suo servo e gli dà un incarico di trasmissione.
Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: 4Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me.
A Mosè viene affidato un incarico di mediazione: riferire al popolo una riflessione teologica e un invito a vantare la propria esperienza. Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto, voi stessi avete visto la vostra vita, avete fatto esperienza di molte vicende, avete conosciuto nella vostra vita l’intervento di Dio. Voi stessi avete visto ciò che il Signore ha fatto per voi, ciò che ha fatto all’Egitto, nel senso che ha punito gli oppressori disobbedienti. Voi stessi avete visto come ho sollevato voi, che invece siete miei servi obbedienti: io vi ho sollevato su ali di aquila. È una immagine poetica, splendida, per indicare la provvidenza misericordiosa di Dio; la grande aquila è immagine allegorica che Dio usa per indicare se stesso. Anche nel cantico di Mosè – Deuteronomio 32 – ritorna questa immagine:
Dt 32,11Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali,
Allo stesso modo il Signore si è preso cura del suo popolo: “Io vi ho sollevato su ali di aquila”. Pensate alla fatica che ci vuole per salire sulla montagna; il sentiero è ripido e chiede molto impegno. Se avessimo ali d’aquila si salirebbe facilmente. L’immagine iniziale non è quella di un Dio che chiede lo sforzo di arrampicarsi sulla montagna più elevata, ma un annuncio tenerissimo di misericordia.
Voi stessi avete visto come io ho sollevato voi su ali di aquila: vi ho sollevato, vi ho fatto venire fino a me. Questo è un punto determinante: non è l’uomo che dà la scalata al cielo conquistando Dio, conquistando l’alleanza, ma è il Signore che solleva il suo popolo e lo fa salire fino a sé.
Il primo passo di meditazione sta nel ripercorrere la nostra esperienza verificando ciò che il Signore ha fatto per noi personalmente sollevandoci su ali d’aquila.
Proviamo a sciogliere l’immagine. Che cosa vuol dire: Il Signore ci solleva, il Signore ci fa venire fino a sé? Che cosa significa: ci porta su ali d’aquila? Ognuno può trovare delle applicazioni per la propria esperienza riconoscendo comunque un intervento operativo di Dio e l’obiettivo non è arrivare ad un luogo, ma ad una persona: “Vi ho fatti venire fino a me”. La meta non è il santuario, il monte, la terra: la meta è il Signore in persona. Adesso è il momento dell’incontro: Dio ha liberato il suo popolo per preparare l’incontro.
La proposta di Dio
5Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra!
«Ora». Ora che siete qui, ora che io vi ho chiamati, sollevati e fatti venire fino a me, ora dipende da voi, se vorrete; se non volete non si fa niente. Non vi impongo, vi propongo una alleanza, se volete ascoltare la mia voce. Dovete decidere voi, dopo aver visto ciò che io ho già fatto adesso sta a voi aderire; l’alleanza non è una costrizione, non è un obbligo, un dovere imposto che noi dobbiamo accettare tacendo in modo passivo.
L’alleanza è una proposta che deve essere liberamente accettata, ma prima di parlare di alleanza si parla di voce: “se volete ascoltare la mia voce”.
«Ascolta Israele!» è il primo comandamento, quello fondamentale, l’unico; tutti gli altri sono conseguenze. Ascolta la mia voce, cioè aderisci alla mia persona, accogli liberamente la mia proposta, il mio progetto.
«Se vorrete custodire la mia alleanza»: ascoltare la voce mette in relazione con il Signore, crea un legame, un vincolo. L’alleanza è un rapporto che deve essere custodito e coltivato, come si diceva nel giardino delle origini: l’uomo fu posto da Dio nel giardino perché lo coltivasse e custodisse. Quel giardino è immagine dell’amicizia e una amicizia deve essere coltivata. Una relazione deve essere custodita, conservata e fatta crescere. Se voi siete disponibili ad ascoltare me e a custodire la relazione con me, allora voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli. In ebraico si adopera un termine tipico dei pastori, la segullàh, che è il nucleo di pecore che appartiene personalmente al pastore, mentre tutte le altre gli sono affidate semplicemente come custodia. Il pastore porta al pascolo tanti animali, ma c’è un gruppetto che gli appartiene; questa è la segullàh, è la proprietà esclusiva e Dio adopera una immagine del genere per proporre al suo popolo di diventare sua proprietà esclusiva.
In greco questo termine della proprietà esclusiva si dice «klh/roj» “kléros” che indica propriamente ciò che è toccato in sorte, anche come eredità, quindi un bene personale. Il termine “clero”, è entrato nel nostro linguaggio ecclesiastico per indicare quella parte scelta che appartiene propriamente al Signore.
Elezione, non esclusione
Voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli; è la scelta di un popolo, è il fondamento della elezione: il popolo eletto appartiene propriamente al Signore. Ma la frase continua ed è anche strana:
voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra!
A me appartiene tutto. Sembra quindi un controsenso dire: “Voi sarete miei, se vorrete”, dal momento che a me appartiene tutto. Questa frase è teologicamente molto fine perché mostra come la elezione non escluda gli altri, ma li includa. Dio non sceglie un popolo perché rifiuta gli altri, ma sceglie un popolo perché vuole arrivare a tutti i popoli. Gli appartengono tutti e lui vuole salvare tutti; per questo si cerca un alleato. Qui si fonda la scelta del popolo, la scelta del clero, la scelta di persone consacrate, convinte e contente di aderire al Signore, persone che appartengono a lui in modo speciale. Sono la sua segullàh, hanno fatto alleanza con lui non perché gli altri siano esclusi, ma perché tutta la terra possa averne un beneficio. Dio sceglie un alleato, forma una specie di società; questo vuol dire che Dio non opera da solo. Cercare un alleato significa creare collaborazione e Dio propone al suo popolo di diventare alleato: lavoriamo insieme, dammi una mano. Se vuoi tu sarai proprio la mia proprietà, perché mi interessa tutta la terra e attraverso di te io voglio arrivare a tutti.
6Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.
Ecco il vertice che spiega il senso dell’alleanza: voi sarete un regno di sacerdoti, cioè un regno, una struttura organizzata con funzione sacerdotale. Voi sarete una nazione “santa”, cioè separata dalle altre, una realtà umana distinta, santa perché appartenente a Dio, con la funzione sacerdotale, cioè con la funzione del mediatore.
Io ho scelto voi per fare alleanza con voi in modo tale che voi diventiate mediatori di salvezza. Voi sarete per me un regno di sacerdoti, sarete costituiti da me come tali. È mio interesse che voi siate una struttura sacerdotale.
La Prima Lettera di Pietro, al capitolo 2, riprenderà proprio questa terminologia per applicarla al popolo cristiano: i battezzati sono il regno di sacerdoti, la nazione santa, un popolo che Dio si è conquistato. Anche l’Apocalisse parla ripetutamente di regno di sacerdoti per indicare la condizione del popolo cristiano in una profonda relazione di appartenenza al Signore, con il compito della mediazione. Questo è vivere l’alleanza.
Il Signore propone a Mosè: “se volete possiamo procedere”.
Queste parole dirai agli Israeliti”. 7Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore. 8Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!”.
È una formula di adesione: “Se volete possiamo fare alleanza” e tutto il popolo risponde: “Lo voglio!”. Il Signore ha detto e noi vogliamo quello che ha detto il Signore. Noi lo vogliamo fare; è una adesione libera e consapevole. Accettano di diventare alleati.
Mosè tornò dal Signore e riferì le parole del popolo.
È interessante evidenziare questa funzione di mediatore svolta da Mosè che continuamente sale e scende dal monte: ascolta Dio, scende e riferisce al popolo quello che Dio ha detto; ascolta il popolo, quindi sale e riferisce a Dio quello che ha detto il popolo. È lui l’immagine del trait d’union, colui che crea unità fra cielo e terra; sale e scende, è il collegamento tra Dio e il popolo.
9Il Signore disse a Mosè: “Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano sempre anche in te”.
È l’istituzione di Mosè come mediatore che merita fiducia, che merita di essere rispettato come il portavoce di Dio.
Mosè riferì al Signore le parole del popolo. 10Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e purificalo oggi e domani: lavino le loro vesti 11e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai alla vista di tutto il popolo.
C’è bisogno di una preparazione, un triduo di preparazione che comporta il lavaggio del corpo, il lavaggio delle vesti e l’essere pronti. Il Signore viene il terzo giorno.
La grande “teofania”
14Mosè scese dal monte verso il popolo; egli fece purificare il popolo ed essi lavarono le loro vesti. 15Poi disse al popolo: “Siate pronti in questi tre giorni: non unitevi a donna”. 16Appunto al terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore. 17Allora Mosè fece uscire il popolo dall’accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte. 18Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. 19Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono.
È la grande teofania, l’apparizione di Dio. Dio si manifesta in mezzo alla tempesta: luci e suoni molto potenti. L’immagine del terremoto, della tempesta, di una eruzione vulcanica richiamano questo spettacolo trascendente. Alcune esperienze terrene possono aiutare a comprendere lo straordinario evento. C’è luce e c’è buio, una oscurità illuminata a giorno dai lampi. Il fuoco caratterizza questa presenza di Dio, Dio è come un fuoco divorante.
Mosè aveva incontrato il Signore in un roveto ardente, in un fuoco che brucia, ma non consuma. Il fuoco ha la caratteristica di distruggere tutto, il fuoco è un elemento bello e positivo, scalda, illumina, cuoce, fa un gran bene alla nostra vita, ma distrugge e quello che incontra riduce in cenere, annienta. Dio è come un fuoco che arde ma non distrugge, è l’immagine positiva del fuoco, non quella negativa. Dio non incenerisce, illumina, purifica, riscalda, trasforma, trasforma in luce.
In questa esperienza divina Mosè accoglie il dono della legge.
20Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì. […] 20,1Dio allora pronunciò tutte queste parole:
E così, nella grande scena della teofania del Sinai, viene ambientato il testo del Decalogo:
Dio allora pronunciò tutte queste parole:
Le parole scritte sulle due tavole di pietra sono il simbolo sintetico dell’alleanza.
Partiamo di qui nella nostra meditazione sulla alleanza che il Signore continua a proporci. Anche a noi ha chiesto di aderire a lui se vogliamo ascoltare la sua voce, se vogliamo custodire il rapporto di amicizia con lui. Il Signore ci sceglie come alleati perché noi ascoltiamo quella voce, entriamo in relazione con lui e portiamo ad altri quella alleanza: al Signore infatti interessa tutta la terra. Lo vogliamo? Abbiamo detto in passato di volerlo e adesso è l’occasione propizia per rivedere la nostra fedeltà, per rinnovare l’adesione.
Viviamo questi giorni di esercizi come una festa del rinnovo dell’alleanza. In Israele avveniva ogni anno o in particolari occasioni: il popolo era convocato, il profeta leggeva le condizione dell’alleanza e il popolo aderiva, rinnovava. Lo stesso schema è rimasto ancora oggi nel rinnovamento delle promesse battesimali. Questi giorni sono festa dell’alleanza, rinnovo dell’alleanza. Considerate quello che il Signore ha fatto e decidete chi volete servire.
Due tavole di pietra
L’alleanza è una categoria teologica fondamentale con cui gli autori della Sacra Scrittura hanno rappresentato il rapporto tra Dio e il suo popolo. Il momento dell’incontro tra Israele e il Signore sul Sinai, con la mediazione di Mosè, è semplicemente una delle espressioni storiche con cui si è rappresentata l’alleanza. “Fare alleanza” vuole dire stringere un legame. L’iniziativa parte da un superiore, cioè da uno più potente, che cerca un collaboratore e si mette in relazione con questo altro offrendogli un dono e chiedendogli un impegno. Si tratta di un procedimento molto umano che corrisponde a quello che nel nostro linguaggio sono i contratti, le società.
Nella tradizione antica qualcuno ebbe l’intuizione di rappresentare il rapporto tra Dio e Israele come una alleanza ed è probabile che questa idea teologica sia stata proprio di Mosè, il quale ha dato una forma letteraria a quella situazione nuova, originale, difficile quindi da esprimere.
Prendendo gli schemi e il linguaggio dei contratti umani, Mosè – chiaramente ispirato da Dio – propose a Israele un contratto con YHWH; ne scrisse il documento di base e celebrò il rito della stipulazione del contratto con gli altri elementi che ne fanno parte integrante.
Il documento dell’alleanza era scritto su tavole di pietra perché in quella antichità così remota non esistevano altri strumenti su cui scrivere e soprattutto per poter conservare a lungo dei testi importanti.
Noi abbiamo ancora il linguaggio della lapide e “lapide” in latino vuole dire semplicemente pietra[1]. Se è avvenuto qualcosa che merita di essere ricordato e se si vuole che ci sia un documento permanente che lo attesti, si scrive una lapide e la si fa mettere in qualche ambiente. È chiaro che un avviso si scrive su carta e lo si appende in una bacheca, ma una lapide è una cosa diversa perché dovrebbe avere un valore differente da quello di un semplice avviso. Anche un manifesto importante ha la durata di qualche giorno, settimana o mese, poi si butta via; una lapide invece dura nel tempo.
L’idea di Mosè è stata quindi quella di realizzare delle lapidi come documenti permanenti. Non avevano la carta come possiamo usare facilmente noi, ma volutamente scelsero la pietra su cui incidere lo scritto, in modo tale che rimanesse nel tempo e non fosse facilmente manipolabile, alterabile. Queste tavole di pietra non erano molto grandi, corrispondenti più o meno a un nostro foglio, quindi delle tavolette.
Ripetutamente nel testo biblico si parla delle due tavole della legge. Il motivo del “due” è legato alla esigenza di chiudere il documento in modo tale che non rimanga all’esterno nessuna scritta per cui, prendendo due tavole e scrivendole solo su un lato, poi i due lati scritti vengono fatti combaciare e all’esterno rimangono le parti non scritte, mentre all’interno ci sono gli elementi incisi. È un modo di procedere per i contratti, per i grandi documenti, affinché non si possano alterare. Queste due tavole vengono chiuse facendo combaciare le due parti scritte, quindi sono fasciate, legate con qualche oggetto anche prezioso come stoffa o cordoni pregiati; il documento viene così impacchettato e conservato.
L’arca dell’alleanza
Dove lo si conserva? In una scatola. Ci vuole un contenitore, ma dato che è un documento molto importante il contenitore deve essere ugualmente importante. Ecco allora che viene creata la scatola dell’alleanza che siamo abituati a chiamare “arca”. Arca indica semplicemente un recipiente che contiene, quindi una scatola, scatoletta, scatolone, armadio: è un contenitore di legno pregiato, rivestito d’oro, con anche dei disegni incisi nell’oro che rappresentano dei cherubini, figure angeliche che servono presso il trono di Dio.
Questa scatola pregiata diventa il contenitore dell’alleanza, del documento che lega Israele al suo Dio. L’arca dell’alleanza diventa il santuario portatile. Dal momento che il popolo non è sedentario, cioè non abita sempre nello stesso luogo, ma è anche nomade nel deserto, non può costruire un santuario in muratura – e quindi non ha un luogo santo – immagina il suo santuario come mobile. Dio, rappresentato dal documento della alleanza, cammina con il suo popolo e abita sotto una tenda. Abita come il popolo nelle tende, perché le tende si smontano e si rimontano altrove; così anche la tenda dell’alleanza, il tabernacolo. In latino “tabernacolo” vuol dire semplicemente “tenda”, è la tenda della presenza di Dio. In mezzo alle altre tende del popolo ce n’è una in cui non abitano delle persone normali, ma è custodita l’arca che contiene il documento fondamentale dell’alleanza. Con delle stanghe quest’arca viene sollevata e trasportata.
Quando il popolo si muove anche l’arca si muove, quando il popolo si ferma anche l’arca si ferma e viene nuovamente eretta la tenda nella quale si riconosce la presenza di Dio in mezzo al suo popolo.
Ogni tanto – una volta all’anno o in occasioni di particolare festività – l’arca viene aperta, il documento viene estratto, si tolgono i cordoni, si sciolgono i legami delle stoffe che l’avvolgono, le due tavole vengono mostrate al popolo e ne viene fatta solenne lettura. È la festa dell’alleanza, è l’occasione in cui il popolo rinnova la consapevolezza di essere legato al Signore. Le due tavole vengono poi di nuovo composte, chiuse nell’arca e l’iter riprende. Per molti secoli si è conservato questo oggetto sacro, finché al tempo di Geremia, quando il tempio fu saccheggiato e distrutto, l’arca e le tavole andarono perdute. Il riferimento al valore dell’alleanza però rimase, perché non era importante quella tenda, non era importante quell’arca, non era importante quella tavola in sé: era importante ciò che significava, cioè la relazione di unione fra Dio e il popolo.
Le Dieci Parole
Che cosa c’era scritto sulle due tavole? È difficile ricostruire in modo storico e attendibile quello che contenevano all’origine, perché i testi biblici che oggi noi leggiamo contengono una rielaborazione teologica posteriore; possiamo però dire con certezza che, secondo la tradizione profetica, le tavole contenevano dieci parole.
Spesso è tradotto con “comandamenti”, però il testo originario della Bibbia parla delle Dieci Parole, tanto è vero che si è creato in greco il vocabolo “decalogo” = “deca–logos”, cioè il documento delle dieci parole. Il Decalogo contiene quindi la rivelazione di Dio. Dio non rivela delle regole o dei dati storico-scientifici, Dio rivela se stesso. In queste dieci parole – contenuto fondamentale dell’alleanza – c’è la rivelazione di Dio. Dio rivela se stesso ed è una parola di Dio rivolta a ciascuno, perché è un dialogo al singolare “io–tu”, con un “tu” riferito a ciascuno in quanto inserito nel popolo. Una parola rivolta a tutte le singole persone della comunità, quindi all’intera assemblea del popolo.
Il documento dell’alleanza mette in relazione ciascun membro del popolo con il Signore; riguarda personalmente ciascuno, ma non è un fatto privato, è un contratto comunitario. Tutto il popolo dice: “Tutto quello che il Signore dice noi lo faremo”. È quindi una legge della comunità, è una costituzione fondamentale del gruppo, dell’insieme di persone che costituiscono il popolo di Dio, la santa assemblea, il popolo raccolto intorno al Signore, quelli che hanno stipulato con me l’alleanza, quelli che ci sono stati, quelli che erano d’accordo nell’accettare il contratto con me.
Le Dieci Parole non sono una lista completa degli obblighi religiosi, ma sono una formula di sintesi che esprime gli orientamenti fondamentali della vita; è un documento della alleanza perché esprime i fondamentali. Quindi non i particolari, ma gli universali, cioè gli elementi essenziali di fondo che costituiscono la rivelazione di Dio e la relazione religiosa fra il popolo e Dio.
In questo senso si dice che queste parole sono state scritte con il dito di Dio. Qualche rappresentazione cinematografica del passato, con effetti speciali, aveva raccontato proprio questo. Ma è un guaio perché – vendendolo sullo schermo – si ha l’impressione di assistere proprio a quello che è successo. In realtà invece il linguaggio biblico era evocatore e la cinematografia moderna non ha aiutato, anzi, ha spesso ha tradito questo fatto.
Mostrare un dito da cui esce un raggio luminoso che incide sulle tavole di pietra delle lettere dà l’impressione di assistere al prodigio, ma si perde il senso profondo di quel testo; si ha una specie di film di animazione fantastica, come uno dei tanti giochetti speciali.
Il dito di Dio, si dice continuamente nella preghiera, è lo Spirito Santo: “digitus paternae dexterae”, è il dito della mano destra di Dio; è una espressione immaginifica per indicare la divina potenza creatrice. Il dito con cui Dio indica, il dito con cui scrive, lo ripresenterà Gesù nel vangelo secondo Giovanni scrivendo con il dito per terra (8,6). È l’intervento creatore di Dio. Dio “indica” e non per niente chiamiamo “indice” il dito che serve per indicare ed è comune, dando una indicazione, un comando, stendere il dito: “fai così”.
Il dito indica, accompagna la parola e dà una indicazione, ma il dito di Dio è creatore. Pensate alla scena dipinta da Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina per la creazione dell’uomo: anche lì c’è il dito di Dio che sta scrivendo la vita, sta indicando l’umanità, sta dando vita all’uomo.
Le tavole sono scritte con il dito di Dio, vuol dire che contengono una parola di Dio per eccellenza, sono uno strumento di creazione con cui Dio crea qualcosa di nuovo, crea un rapporto di amicizia, di unione tra Dio e l’uomo.
Un testo antichissimo
Il testo del Decalogo ci è conservato in due redazioni differenti: nel libro dell’Esodo e nel libro del Deuteronomio; sono redazioni simili, ma non identiche. È un caso interessante di un testo conservato in due diversi libri, sostanzialmente uguale, ma con piccole variazioni. Il fatto che due libri biblici portino questo testo come citazione significa che in origine era un testo a sé stante, cioè aveva una autonomia, era un testo conservato distintamente dal resto. Prima che esistesse il libro dell’Esodo, prima che esistesse il Deuteronomio, c’era già questo testo, indipendente dal racconto, un testo quindi molto antico.
Quello che noi adesso abbiamo è un testo ritoccato dalla tradizione, cioè un testo che ha subito aggiunte e modifiche, soprattutto esortazioni; anche se ci sembra abbastanza breve, è ancora troppo lungo per essere scritto su due tavolette, tanto è vero che nei quadri ci si accontenta di mettere i numeri. Quando Mosè ha le due tavole della legge in mano sopra ci sono incisi i numeri “romani” e possiamo ben immaginare che… non fosse proprio così.
Mosè non usava i numeri romani. In genere vengono scritti cinque numeri per tavola, oppure si dividono i prime tre e poi gli altri sette nella seconda tavoletta, a seconda del riferimento a Dio o al prossimo. Questi sono schemi posteriori nostri, però è un modo per richiamare l’attenzione; le tavole ti ricordano Mosè e poi i numeri devono richiamare il dieci e il dieci diventa un simbolo del totale, della pienezza.
Perché il dieci è un simbolo di totalità? Ci vogliono dei riferimenti sempre concreti, perché il gioco dei numeri si presta a tanti arbitrii e allora non si può dire che il tre è la perfezione, ma lo è anche il sette e lo è anche il dieci. Sono numeri che fanno riferimento a qualche cosa di concreto. Il sette è la fase di luna e quindi sette giorni sono l’unità minima del tempo: arrivati a sette si ricomincia da uno. Il tempo si calcola in base sette, la settimana, perché è legata alle fasi della luna.
Il dieci invece è legato alle dita delle mani: da che mondo è mondo sono sempre dieci. Si può contare sulle dita fino a dieci, è una totalità. Unisco le due mani per pregare e sono dieci dita. Sono elementi semplicissimi, primordiali, che si perdono nella notte dei tempi e richiamano qualche cosa di visibile. Le dieci dita le hai sempre davanti agli occhi e anche i bambini imparano facilmente a contare fino a dieci. Il riferimento è a un elemento della nostra concreta persona e quindi si è ridotto a dieci quello che è ritenuto essenziale, completo, decisivo per la comprensione della rivelazione di Dio e della relazione con il suo popolo.
… citato dai profeti
Noi troviamo anche nei profeti dell’Antico Testamento dei riferimenti a questa tradizione delle Dieci Parole. Ad esempio in Osea 4,2 leggiamo che il profeta contesta un atteggiamento sbagliato del popolo:
Os 4,1Ascoltate la parola del Signore, o Israeliti, poiché il Signore ha un processo con gli abitanti del paese. Non c’è infatti sincerità né amore del prossimo, né conoscenza di Dio nel paese. 2Si giura, si mentisce, si uccide, si ruba, si commette adulterio, si fa strage e si versa sangue su sangue.
Non ci sono tutti i comandamenti, ma ce ne sono alcuni; c’è il riferimento a una mancanza di conoscenza di Dio. Ugualmente possiamo vedere in Geremia 7,9; è il famoso discorso del tempio quando il profeta contesta la sicurezza del suo tempo dicendo:
Ger 7,9Ma voi confidate in parole false e ciò non vi gioverà: 9rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a Baal, seguire altri dei che non conoscevate. 10 Poi venite e vi presentate alla mia presenza in questo tempio, che prende il nome da me, e dite: Siamo salvi! per poi compiere tutti questi abomini. 11Forse è una spelonca di ladri ai vostri occhi questo tempio che prende il nome da me?
Questo tempio non è una spelonca di ladri, dice Geremia. È il ricordo di quella rivelazione che voi non vivete e, per mostrare un esempio del tradimento dell’alleanza, fa riferimento a una serie di violazioni del Decalogo: «rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a Baal, seguire altri dei». Anche qui non abbiamo il testo preciso e concreto, ma chiaramente c’è il riferimento a questo documento che nella tradizione profetica era utilizzato come punto di riferimento. Ancora Ezechiele 18,5-9; qui il profeta amplia ancora di più la gamma degli esempi:
Ez 18,5Se uno è giusto e osserva il diritto e la giustizia, 6se non mangia sulle alture e non alza gli occhi agli idoli della casa d’Israele, se non disonora la moglie del suo prossimo, 7se non opprime alcuno, restituisce il pegno al debitore, non commette rapina, divide il pane con l’affamato e copre di vesti l’ignudo, 8se non presta a usura e non esige interesse, desiste dall’iniquità e pronunzia retto giudizio fra un uomo e un altro, 9se cammina nei miei decreti e osserva le mie leggi agendo con fedeltà, egli è giusto ed egli vivrà, parola del Signore Dio.
Anche qui abbiamo una serie di esemplificazioni morali per indicare colui che osserva l’alleanza. Bene! Questo testo antico e tradizionale ha subito delle aggiunte, dei piccoli ritocchi, delle spiegazioni ed è diventato un testo fondamentale per la rivelazione di Dio, al punto che gli autori teologi che hanno organizzato i racconti dell’alleanza, hanno inserito il Decalogo all’inizio della stipulazione dell’alleanza.
Abbiamo già visto in Es 19 l’intenzione di Dio, la proposta e l’accettazione; subito dopo arriva la formulazione del Decalogo. Poi segue una serie di leggi, minuziose, particolari – il cosiddetto Codice dell’alleanza – che riempie i capitoli 20-23; ma prima c’è la sintesi.
Così l’altro testo – che troviamo nel Deuteronomio al capitolo 5 – viene incorniciato da un discorso di Mosè molto simile a quello che abbiamo già visto.
Partiamo da Deuteronomio 4,44. Questo è uno dei testi più antichi, precedente a quello dell’Esodo; è il documento che venne trovato nel tempio all’epoca di Giosia (622), quando si disse: “È stata ritrovata la legge del Signore” e difatti in Deuteronomio 4,44 il testo inizia proprio così:
Dt 4,44Questa è la legge che Mosè espose agli Israeliti.
È la torah di Mosè,
45Queste sono le istruzioni, le leggi e le norme che Mosè diede agli Israeliti quando furono usciti dall’Egitto […] 5,1Mosè convocò tutto Israele e disse loro: “Ascolta, Israele, le leggi e le norme che oggi io proclamo dinanzi a voi: imparatele e custoditele e mettetele in pratica. 2Il Signore nostro Dio ha stabilito con noi un’alleanza sull’Oreb. 3Il Signore non ha stabilito questa alleanza con i nostri padri, ma con noi che siamo qui oggi tutti in vita. 4Il Signore vi ha parlato faccia a faccia sul monte dal fuoco, 5mentre io stavo tra il Signore e voi, per riferirvi la parola del Signore, perché voi avevate paura di quel fuoco e non eravate saliti sul monte. Egli disse:
A questo punto – nel Deuteronomio 5,6-21 – viene riportato il Decalogo. Quando questo finisce riprende il discorso di Mosè:
22Queste parole pronunciò il Signore, parlando a tutta la vostra assemblea, sul monte, dal fuoco, dalla nube e dall’oscurità, con voce poderosa, e non aggiunse altro. Le scrisse su due tavole di pietra e me le diede.
Ora, noi abbiamo questo testo così importante che contiene la rivelazione di Dio e che nel Nuovo Testamento, attraverso Gesù Cristo, è stato confermato e valorizzato. Il nostro lavoro sarà quello di leggere il documento fondamentale dell’alleanza e di capirlo nella prospettiva di Gesù.
Dobbiamo però ancora fare una meditazione introduttiva. Vedremo Gesù di fronte al Decalogo per capirlo in modo cristiano, dopodiché potremo cominciare a leggerlo e a fare meditazione per ciascuna di queste dieci parole fondamentali – che costituiscono la base della nostra alleanza con Dio – da cristiani, quindi nella prospettiva piena di Cristo.
Vi chiederei un lavoro di confronto fra i due testi – così vi preparate – tra Esodo 20 e Deuteronomio 5. Confrontate i due testi del Decalogo; leggendoli attentamente notate le differenze; non sono molte, ma alcune sono significative. Notate anche quello che sapete a memoria, che avete imparato dal catechismo, perché la formula dei dieci comandamenti che noi usiamo nel catechismo non è né quella del Deuteronomio né quella dell’Esodo; è una terza formula adattata catechisticamente dai cristiani. Cominciate a vedere il testo, ad analizzarlo e poi ci ritorneremo con calma.
Ritornate anche nella preghiera a questo schema dell’alleanza: un documento, l’arca, la tenda e il rinnovamento. Facendo adorazione provate a vedere come siamo di nuovo in quello schema. Il titolo Foederis Arca, arca dell’alleanza, è dato a Maria nelle litanie.
In che senso Maria è l’Arca dell’alleanza? È una scatola? Contiene l’alleanza, è la tenda della presenza, perché l’alleanza non è una tavola di pietra, ma è la persona di Dio. Gesù è l’alleanza e allora, facendo l’adorazione, voi siete in una tenda; l’ostensorio è l’arca e l’alleanza è il Cristo stesso, è lui l’elemento fondamentale. Voi non aderite a delle idee, ma a una persona e l’adorazione è continuamente un rinnovo della alleanza, una consapevolezza di adesione autentica a quel Signore che si è rivelato.
Due redazioni, un unico Decalogo
Esodo 20 | Deuteronomio 5 |
20,1 Dio allora pronunciò tutte queste parole:
2“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù:
3non avrai altri dei di fronte a me
4Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra.
5Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, 6ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi.
7Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.
8Ricordati del giorno di sabato per santificarlo:
9sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.
11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.
12 Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio.
13Non uccidere.
14 non commettere adulterio.
15Non rubare.
16Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
17Non desiderare la casa del tuo prossimo.
Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”.
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5,1Mosè convocò tutto Israele e disse loro: “Ascolta, Israele, le leggi e le norme che oggi io proclamo dinanzi a voi: imparatele e custoditele e mettetele in pratica. 2Il Signore nostro Dio ha stabilito con noi un’alleanza sull’Oreb. 3Il Signore non ha stabilito questa alleanza con i nostri padri, ma con noi che siamo qui oggi tutti in vita. 4Il Signore vi ha parlato faccia a faccia sul monte dal fuoco, 5mentre io stavo tra il Signore e voi, per riferirvi la parola del Signore, perché voi avevate paura di quel fuoco e non eravate saliti sul monte.
Egli disse: 6Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile.
7Non avere altri dei di fronte a me.
8Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra.
9Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai. Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, 10ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti.
11Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio perché il Signore non ritiene innocente chi pronuncia il suo nome invano.
12Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato.
13Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, 14ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te.
15Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato.
16Onora tuo padre e tua madre, come il Signore Dio tuo ti ha comandato, perché la tua vita sia lunga e tu sii felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà.
17Non uccidere.
18Non commettere adulterio.
19Non rubare.
20Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
21Non desiderare la moglie del tuo prossimo.
Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo.
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Gesù e il Decalogo
Che cosa serve per essere buoni cristiani? A catechismo abbiamo rischiato di dire più volte: “Per essere buoni cristiani bisogna osservare i dieci comandamenti”. I ragazzi hanno imparato una formula del genere e questo vuol dire che qualcuno gliel’ha insegnata.
Ma ragioniamo. Se i dieci comandamenti appartengono alla tradizione antica – rivelata a Mosè – vuol dire che esistevano già prima di Gesù, che sono comuni anche alla tradizione ebraica. Quindi gli ebrei, prima di Gesù, che osservavano i dieci comandamenti, erano dei buoni cristiani? Che cosa ha portato allora di nuovo Gesù Cristo? Nulla? Semplicemente ci ha ricordato che bisogna osservare i comandamenti?
È quindi chiaro che spesso, nella nostra predicazione, nella trasmissione della fede, abbiamo rischiato di banalizzare la rivelazione affermando che Gesù è venuto a dirci di osservare i comandamenti. Era necessario che Dio si facesse uomo e che morisse in croce per ricordarci quello che era già scritto?
Gesù è il centro della nostra fede
La nostra meditazione serve proprio per chiarire il ruolo di Gesù Cristo rispetto ai comandamenti, perché noi oscilliamo abitualmente tra due estremi e – come spesso capita, poiché l’equilibrio non è di questo mondo – si finisce per esagerare o da un parte o dall’altra. Ho già messo in evidenza il primo tipo di esagerazione: i comandamenti sono la regola della vita cristiana. Questa è una esagerazione giudaizzante, perché a questo punto Gesù diventa inutile. Quando si è capito questo si rischia però di esagerare dalla parte opposta: Gesù è la novità, ha portato la grazia, la legge non serve più: i dieci comandamenti sono vecchi e superati, basta la grazia di Gesù.
Questa è un’altra esagerazione e noi oscilliamo da una parte o dall’altra: o si nega la grazia di Gesù o si nega il valore della legge. Lo si fa implicitamente perché è difficile trovare delle persone che, con piena e lucida consapevolezza, vogliano sostenere delle eresie, però di fatto l’insegnamento pratico è pieno di errori, di cose mal dette, di espressioni mal formulate che entrano nella testa e la deformano anziché formarla.
Cerchiamo allora di mettere a fuoco la posizione equilibrata: i comandamenti da soli non bastano, il ruolo di Gesù Cristo e della sua grazia è determinante per la salvezza, ma Gesù Cristo non ha abolito la legge, l’ha portata a compimento, ha reso cioè possibile il compimento pieno della legge di Dio.
Al centro della nostra fede non ci sono le tavole della legge, ma la persona di Gesù Cristo che rende nuovo il nostro cuore e entra in relazione personale con ciascuno di noi; è il maestro amato che vive in noi, a cui noi aderiamo totalmente. Al centro della nostra fede non c’è la legge e non c’è nemmeno il libro, c’è la persona che dà pieno compimento a ciò che è scritto nel libro, c’è colui che rende la nostra persona capace di vivere come Dio comanda. Il Decalogo deve essere quindi letto dapprima nella prospettiva biblica, storica, antica, cercando di capire come è stato composto e che cosa voleva dire in sé. È un testo dell’Antico Testamento legato al popolo di Israele in un’epoca arcaica, ma è un testo di rivelazione divina con cui Dio comunica se stesso. Nel Decalogo abbiamo perciò la parola di Dio, abbiamo Dio che rivela se stesso e per capirlo pienamente dobbiamo rifarci alla Parola di Dio fatta carne che è Gesù.
Bisognerà quindi rileggere il Decalogo nella luce del Nuovo Testamento: la grazia che il Signore ci ha portato serve per vivere la legge. Siamo sotto la grazia nel senso che l’amore di Dio, dal di dentro, ci rende capaci di fare la volontà di Dio, quello che il Signore comanda.
Gesù e il Decalogo
Ci sono due passi, nei racconti evangelici, in cui si fa riferimento al Decalogo e allora partiamo da questi due testi per osservare come Gesù si comporta nei confronti del Decalogo. Il testo più esplicito è quello conosciuto come l’episodio del giovane ricco; lo troviamo in tutti e tre i sinottici, ma in modo particolare in Matteo al capitolo 19.
Mt 19,16Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?”. 17Egli rispose: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono.
La prima parte della risposta di Gesù corregge il tiro. Quel tale gli aveva chiesto una cosa buona da fare e Gesù gli fa notare che “buono” è solo Dio. Non ci sono delle cose buone, delle buone azioni a prescindere da Dio; senza il legame con il Signore non ci sono cose buone, l’unico buono è il Signore. Allora la domanda non doveva essere “Che cosa devo fare di buono”, ma piuttosto “Come posso essere in relazione con colui che è buono”. Però, tenendo conto del livello di colui che ha fatto la domanda, Gesù risponde secondo lo schema classico giudaico:
Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. 18Ed egli chiese: “Quali?”.
Questo perché nella tradizione ebraica si era venuta a creare una grande quantità di normative e gli scribi erano arrivati a catalogare ben 613 comandamenti, difficili anche da memorizzare e da conoscere; figuriamoci poi… applicarli quotidianamente. L’innato desiderio di classificazione, proprio del giurista rabbinico, aveva catalogato dalla Bibbia ben 613 precetti: 365 proibizioni (come i giorni dell’anno) e 248 comandamenti (quante si riteneva fossero le ossa del corpo umano) sulla cui gerarchia di valori i circoli professionali dei dottori della legge discutevano in modo pedante e maniacale. Se i comandamenti sono così tanti si rischia anche di dover scegliere tra l’uno e l’altro, perché in certe situazioni vengono comandate due cose che non si possono fare in contemporanea e allora bisogna creare una gerarchia di comandamenti: quali sono quelli fondamentali?
La risposta di Gesù chiaramente rinvia al Decalogo.
Gesù rispose: “”Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso,” 19“onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso””.
Gesù non li cita nell’ordine, inserisce alla fine un altro testo che non appartiene propriamente al Decalogo, ma è semplicemente un riferimento. Gesù quindi conosce, stima il Decalogo e vi rimanda quest’uomo come indicazione per avere la vita eterna.
20Il giovane gli disse: “Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?”.
Gesù non gli risponde: “Non ti manca niente, se hai osservato i comandamenti sei a posto”. Quel giovane che ha osservato queste cose sente che gli manca ancora qualcosa.
21Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. 22Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze.
Che cosa gli ha proposto Gesù? Di diventare povero, di farsi prete, di farsi frate, di entrare in qualche congregazione? No! Gli ha proposto di aderire totalmente a Gesù rinunciando a quella ricchezza che è il suo amor proprio, il suo io, la sua superbia, il suo attaccamento a se stesso. Che cosa gli manca allora? Il cuore nuovo! Gli manca la grazia dell’unione con Dio. È un giovane osservante, praticante, che non ha mai rubato, non ha mai ucciso, non ha mai commesso adulterio, quindi è sulla buona strada, ma non è perfetto.
“Perfetto”, nel linguaggio evangelico, non significa senza difetti, ma significa maturo, pieno, realizzato e la perfezione non viene da noi, dalla nostra capacità umana di maturazione, dal fatto che siamo capaci di fare le cose perché abbiamo maturato un equilibrio psicologico. La perfezione viene dal Signore, è lui che porta a compimento in noi l’opera iniziata.
Se vuoi essere perfetto, se desideri essere una persona matura e completa, aderisci al Signore, aderisci totalmente a lui, lasciati formare da lui, perché quella osservanza diventi piena adesione, con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le tue forze. Abbandonare le proprie ricchezze significa distaccarsi da sé per fare della propria vita una donazione.
In questo episodio troviamo quindi sia l’approvazione del Decalogo, sia il superamento del Decalogo.
C’è un altro episodio, anche questo di triplice tradizione sinottica, dove si fa questione sulla legge. È l’episodio in cui uno scriba chiede a Gesù qual è il primo dei comandamenti. Leggiamo il testo secondo Marco:
Mc 12,28Allora si accostò uno degli scribi che li aveva uditi discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”.
La domanda si colloca nel contesto delle discussioni giudaiche sull’ordine dei 613 precetti. Se dovessimo fare una graduatoria, quali sono i più importanti? O, meglio, qual è quello fondamentale da cui tutto il resto dipende?
Il primo comandamento: “Ascolta!”
29Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; 30amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. 31E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi”.
Notiamo che in questo caso Gesù non cita il Decalogo, ma il testo di Deuteronomio 6, mentre il Decalogo si trova in Dt 5, perché nel cap. 6 il Dt riprende in modo esortativo il testo del Decalogo e lo commenta. L’interesse di Gesù nel dare una risposta è però quello di offrire una sintesi. Notate però una cosa molto importante: il primo comandamento è «Ascolta Israele!».
Se io chiedo qual è il primo comandamento la risposta più frequente è “Amare Dio”.
Se però osservate con attenzione il testo, anche da un punto di vista grammaticale, vi accorgete che in tutti questi versetti c’è solo un imperativo e noi sappiamo che i comandi si esprimono nel modo imperativo. “Ascolta” è un imperativo, mentre “amerai il Signore Dio tuo, amerai il prossimo tuo” non sono imperativi, ma sono indicativi futuri.
Quindi qual è il comandamento? “Ascolta!”. Non si può comandare l’amore, non esiste il comandamento dell’amore; l’amore è conseguenza, non precetto. Il precetto è l’ascolto, il primo comandamento fondamentale è “Ascolta il Signore”, di conseguenza… “amerai il Signore Dio tuo e amerai il prossimo tuo”.
L’amore è conseguenza dell’ascolto, ma attenzione, perché per ascolto non si intende semplicemente la percezione fisica delle parole, perché moltissime volte si ascoltano delle cose, si dice di sì, ma si continua a fare esattamente come prima. Lo si vede nelle piccole cose. Ci illudiamo che le persone ascoltino i grandi messaggi esistenziali, quando ti accorgi che non ascoltano le piccole indicazioni pratiche. Molte volte, anche nella liturgia, si danno delle indicazioni, ma la maggior parte dei presenti non ha ascoltato, non ci ha fatto caso, se le è dimenticate. Non ascoltano delle banali indicazioni pratiche e pensate che ascoltino i grandi principÐ, per cui si cambia lo stile di vita e il modo di pensare? Ascoltare sul serio è opera difficilissima, ma è il comandamento fondamentale, è la strada.
Ascoltare il Signore che parla vuol dire leggere la Bibbia, leggerla bene, leggerla con calma e profondità, meditarla nel cuore e ascoltare la voce dello Spirito che dal di dentro parla, commenta, spiega, fa capire, attualizza, plasma il cuore. Questo è il primo comandamento: “Ascolta!”.
32Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; 33amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici”.
Lo scriba ha aggiunto una cosa importante secondo la tradizione profetica: l’obbedienza vale più della pratica liturgica. Quello scriba, pur affermando che l’obbedienza nella vita è più importante della formale celebrazione dei riti, non ha tuttavia colto il punto centrale. È d’accordo su quelle due citazioni: Dt 6 e Lv 19: “Amerai il Signore e amerai il prossimo”, ma la novità di Gesù dove sta? Forse nel fare le citazioni? Gesù è un maestro venuto per fare delle citazioni bibliche, per dirci quali sono i più importanti comandamenti?
34Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”.
Ma non ci sei dentro. Ripensiamo a questa ultima frase: Gesù dice allo scriba: “Non sei lontano dal regno di Dio”. Vuol dire che gli manca qualcosa; non essere lontano vuol dire essere vicino. Come quando si gioca a trovare un oggetto: quando si è lontani si dice acqua, acqua, quando si è vicini all’oggetto si dice fuoco, fuoco. Ci sei quasi, ma non lo hai ancora trovato.
Notate come in tutti e due questi episodi ci sia la sottolineatura di qualche cosa che manca. “Che cosa mi manca ancora?”, chiede il giovane: “Non sei lontano dal regno di Dio” commenta Gesù allo scriba. Che cosa gli manca per essere nel regno? L’adesione a Gesù come Messia e Figlio di Dio. Infatti, nel vangelo secondo Marco, subito dopo c’è una questione fondamentale che riguarda la divinità del messia.
La nostra meditazione sul Decalogo, quindi, non può e non deve fermarsi alla considerazione antica della legge, ma deve concentrare la propria attenzione sulla persona di Gesù che ha cambiato il cuore dell’uomo. Non ha contestato la giustizia, ma l’ha portata a compimento.
Mt 5,20Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Ci siete vicini, ma non dentro. Come può la vostra giustizia superare quella degli scribi e dei farisei che erano persone devotissime e osservanti della legge nei minimi particolari?
A livello di impegno devozionale non li supererete mai, però la vostra giustizia deve superare quella. Non si parla dunque di uno sforzo umano, non vi è chiesto uno sforzo superiore a quello dei farisei, vi è chiesta l’adesione alla persona di Gesù.
La nostra giustizia è il Signore, è lui il compimento, perché la sua persona che vive in noi ci permette di passare dalla esecuzione pratica alla autentica realizzazione del progetto. È la sua persona che ci permette di passare da una semplice applicazione formale – non ho ucciso, non ho rubato – alla pienezza di vita che realizza il progetto di Dio.
Gesù perfeziona, non abolisce
Dovremo così prendere in considerazione l’insegnamento di Gesù che porta a compimento la legge. Avete inteso che fu detto agli antichi “non uccidere, ma io vi dico”. Quel “ma io vi dico” cambia la legge? No! Perché, se fosse un cambiamento, Gesù continuerebbe dicendo: “Ma io vi dico: uccidete pure”; è stato detto “non uccidere”, ma io vi dico “si può uccidere”. Questo sarebbe un cambiamento, ma non è quello che fa Gesù.
Non si tratta quindi di cambiare il Decalogo, ma di approfondire, di portare in profondità lo spirito della legge, di realizzare lo spirito della legge.
La rivelazione piena del Nuovo Testamento ci aiuta quindi a comprendere lo spirito della legge, ma il dono dello Spirito Santo, che è la grazia di Gesù, non solo ci fa capire, ma ci rende realizzatori dello Spirito. Il criterio dell’amore di Dio e del prossimo è la chiave di lettura di tutto il Decalogo, ma la sua realizzazione non è legata alle capacità umane, bensì al dono di grazia dello Spirito per mezzo del quale possiamo vivere in pienezza.
Dalla Lettera ai Romani:
Rm13,10pieno compimento della legge è l’amore.
Così l’apostolo sintetizza l’interpretazione delle parole di Gesù. Un’altra formula di sintesi interessante la troviamo in sant’Ireneo di Lione, uno dei più antichi padri della chiesa, autore di un’opera fondamentale, considerata il primo documento di teologia dogmatica della chiesa, intitolato “Adversus haereses”, “Contro le eresie”.
Il Signore comandò l’amore verso Dio e insegnò la giustizia verso il prossimo, affinché l’uomo non fosse né ingiusto né indegno di Dio. Così, per mezzo del Decalogo, Dio preparava l’uomo a diventare suo amico e ad avere un solo cuore con il suo prossimo. Le parole del Decalogo restano validissime per noi, lungi dall’essere abolite esse sono state portate a pienezza di significato e di sviluppo dalla venuta del Signore nella carne. Non abolite, ma validissime per noi, pienamente realizzate dalla persona di Gesù.
Dal Decalogo alle Beatitudini
Nell’episodio del giovane ricco di Mt 19,16-22 (e nei corrispondenti racconti di Mc 10,17-22; Lc18,18-23), Gesù indica i comandamenti come le prime condizioni irrinunciabili per avere la vita eterna. Poi però va oltre, supera e perfeziona questi precetti e passa delle parole scritte sulla pietra a quelle scritte nel cuore, al dono di sé non contemplato nel Decalogo, realizzando così la profezia del profeta Geremia. Questo è stato l’insegnamento di Gesù, il suo esempio concreto. Da questo atteggiamento di libera adesione e obbedienza alla volontà del Padre, del dono di sé, e dalla nostra sequela a Cristo, scaturiscono proprio le beatitudini.
L’elemento discriminante con l’obbedienza legale alla vecchia legge è il comandamento “nuovo” di Gesù: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13,34). L’amore per il prossimo non è una novità di Gesù; la sua particolarità è infatti nella modalità di questo amore: “come io vi ho amato” e… conosciamo bene la misura di quell’amore.
È proprio questa modalità dell’amore l’origine e la fonte di ogni beatitudine.
Gv 1,17«La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo
I comandamenti, dati all’inizio della rivelazione biblica, sono i cardini dell’antica alleanza tra Dio e il suo popolo, una legge necessaria per ottenere la vita eterna. Le beatitudini sono invece il frutto dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione di Gesù il quale realizza in modo perfetto, compiuto, il suo progetto di salvezza per l’umanità.
Battezzati nel nome del Padre, del Figlio incarnato e dello Spirito Santo – l’amore che lega le Persone trinitarie in una unica realtà divina – “voi avete già la vita eterna”. Questa enorme grazia vi è stata donata, siete quindi già beati ed allora potete essere perseguitati a causa della giustizia, oppressi ecc., perché tutto ciò è una condizione minima, passeggera, effimera di fronte a ciò che già avete ereditato: il regno di Dio, la terra, ecc.
Mentre la legge dava solo precetti, senza offrire la possibilità di ottemperarli in pienezza, la grazia di Dio ha reso l’uomo “capace di Dio”, cioè in grado di obbedire alla legge. Le beatitudini sono quindi il segno della grazia che ha raggiunto l’uomo rendendolo capace di realizzare l’antico ed eterno progetto di Dio, sono un immeritato dono di Dio.
La grazia, gratuitamente donataci con il sacrificio di Gesù, ha reso l’uomo capace di compiere la volontà di Dio. L’antica legge, esterna all’uomo e impraticabile, adesso è posta al suo interno e non è più una legge, ma un desiderio. Il cambiamento del cuore pone l’uomo in buona relazione con Dio, rende cioè l’uomo “giusto”, come dirà Paolo.
Da Mosè, che ha ricevuto da Dio la legge e l’ha presentata al popolo come schema di alleanza, siamo ormai in una alleanza “nuova ed eterna” perché stipulata da Gesù stesso – da Dio – con il suo stesso sangue.
Come il Decalogo per l’Antico Testamento è la base del patto dell’alleanza tra Dio e l’uomo, il pilastro del comportamento dell’uomo fedele a Dio, così le beatitudini sono il risultato dell’esperienza terrena di Gesù che, attraverso il suo sacrificio, ha posto l’uomo in una condizione di felicità, di gioia. Attraverso l’adesione a Cristo – e non più a sole parole scritte – l’uomo ha già ottenuto la salvezza e quindi può, in questa condizione di beatitudine già raggiunta, sopportare ogni tribolazione.
La «buona notizia» del vangelo è proprio la possibilità che Gesù ha dato all’uomo di «essere felice». Il vangelo è infatti l’annuncio di una felicità «possibile» e le beatitudini potremmo considerarle, per certi versi, la sintesi del vangelo, il sigillo che Gesù ha voluto conferire al suo messaggio di libertà e felicità. Dio ci ha creati perché fossimo felici e leggendo le beatitudini scopriamo di poterlo serenamente essere, in tutta tranquillità.
Il discorso della montagna non è l’estrema e ultima consolazione per chi non ha nulla, destinato quindi ai più poveri tra i poveri; non è l’ancora di salvezza o l’estremo conforto spirituale per i naufraghi della vita, per chi non ha più nulla da perdere. È invece una dichiarazione ufficiale della presenza di Dio accanto a noi, è la testimonianza della gioia con la quale il cristiano esprime al mondo la certezza della sua fede, anche nelle prove più dure e nelle circostanze apparentemente disperate.
Le situazioni di sofferenza descritte non vanno intese come mete da raggiungere per ottenere la beatitudine corrispondente; ci vogliono invece dire che, in ogni circostanza della vita e in ogni momento della nostra esistenza, Dio ci è vicino, non si dimentica di noi e noi dobbiamo, sempre, fargli posto.
Guai a intendere le beatitudini come comandamenti; noi le abbiamo erroneamente intese in un senso morale di sofferenza che porta alla felicità, ma non è così. Le beatitudini sono la nuova legge; il centro di esse è che Dio la salvezza l’ha già compiuta, la salvezza dipende da lui e non da noi come era per i comandamenti. Le beatitudini, quindi, non indicano delle norme da seguire, ma offrono il quadro di una felicità già acquisita. Il vero cristiano è quello che, anche nella sofferenza, riesce ad essere felice perché vede la luce oltre il buio del dolore, perché scopre anche nel dolore la presenza di Dio vicino a sé che lo conforta, aiuta e gli pone la prospettiva, attraverso la fede, di arrivare al bene eterno.
Il Signore ci lascia in eredità la terra, per cui possiamo essere miti. Il Signore ci sazia, per cui possiamo cercare il regno di Dio e la sua giustizia come ci diamo da fare tutti i giorni per far da mangiare o recarci al lavoro. Il Signore ci tratta con misericordia per cui, di conseguenza, possiamo essere misericordiosi. Il Signore si è fatto conoscere da noi, noi lo abbiamo incontrato, per questo possiamo essere schietti, limpidi, non doppi. Il Signore ci ha fatti diventare suoi figli, siamo fortunati, possiamo vivere da figli operando la pace, costruendo. Possiamo! Nella nostra piccolezza, nella nostra debolezza, nelle nostre incapacità, possiamo essere testimoni del vangelo e siamo contenti di questo perché è il Signore che opera in noi.
Mt 5,1Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. 2Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: 3“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
4Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
5Beati i miti, perché erediteranno la terra.
6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
10Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.
«Chi non ha mai letto il discorso della montagna non può dire di sapere che cosa sia il cristianesimo». Questa frase è stata scritta da uno scrittore francese cattolico Francois Mauriac il quale esaltava questa pagina fondamentale come la magna charta del cristianesimo, il testo fondamentale, decisivo.
Con sant’Agostino il Decalogo entra nel catechismo
In seguito la tradizione della chiesa, sull’esempio di Gesù, ha riconosciuto al Decalogo una importanza fondamentale. Ma decisivo per l’uso di questo testo è stato s. Agostino; è lui che ha inserito nella prassi di preparazione dei catecumeni l’insegnamento del Decalogo.
La preparazione al battesimo era soprattutto fondata sul Credo e sul Padre nostro; Agostino introdusse anche i dieci comandamenti ed è proprio l’autorità di s. Agostino che ha fatto entrare nella prassi catechistica dell’Occidente l’uso dei dieci comandamenti.
Anche la divisione numerica dipende da Agostino. Nel testo biblico non ci sono i numeri, non viene detto qual è il 5° comandamento, dipende dalla nostra classificazione. Lo schema catechistico che abbiamo imparato a memoria e che troviamo nei nostri testi, non corrisponde perciò a quello biblico; ci sono dei cambiamenti e questi dipendono da s. Agostino.
Il primo cambiamento fondamentale è l’abolizione di uno dei dieci comandamenti; è stato soppresso “Non ti farai immagine alcuna”. È stato cancellato e così, cancellandone uno, sono rimasti nove; ecco che allora si sdoppia l’ultimo: “Non desiderare la moglie”, “Non desiderare la roba”. Il decimo comandamento viene diviso in due in modo tale che torni il numero dieci. Ma a quel punto, se voi provate a numerare secondo il testo biblico, vi accorgete che i numeri non corrispondo più a quelli a cui siete abituati.
Questo è uno schema ecclesiastico, quindi anche con gli ortodossi ci sono delle differenze, oltre che con gli ebrei. Pertanto, se leggete ad esempio un testo della tradizione russa, se trovate il riferimento al sesto comandamento sappiate che è “Non uccidere”, perché nella tradizione orientale il sesto corrisponde a quello che noi chiamiamo quinto.
Questa prassi catechistica ha portato a usare il Decalogo come schema fondamentale della morale e quindi tutta la trattazione della vita morale è stata racchiusa nello schema dei dieci comandamenti. Noi abbiamo perciò davanti un testo biblico antico, da rileggere nella prospettiva di Cristo, da considerare nella chiave di lettura ecclesiastica che ne fa lo scheletro di tutta la vita morale. Concludiamo allora proprio con una frase del vangelo.
Gv 6,63 È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla;
La carne è la nostra umanità concreta, quello che siamo capaci a fare noi; questo serve a poco o a niente. Senza lo Spirito non hai la vita; puoi infatti osservare tutte le regole e non essere vivo, non avere la vita di Dio, non entrare nel regno; ci arrivi vicino, ma non ci sei dentro. Oppure, aggiungiamo ancora il detto di Gesù, sempre dal vangelo secondo Giovanni, al capitolo 15, dove si parla della vita e dei tralci:
Gv 15,5 senza di me non potete far nulla.
Lo prendiamo come punto di riferimento: noi meditiamo la legge, il dono della legge, sapendo però che senza l’opera di Gesù Cristo in noi, non possiamo fare nulla.
Allora la nostra meditazione si deve concentrare sul ruolo fondamentale di Gesù Cristo sulla nostra vita: non la legge, ma la persona. La grazia di Gesù Cristo ci rende capaci di osservare la legge, ma non ne deriverà mai orgoglio personale di essere bravi esecutori; saremo invece sempre amici di Gesù Cristo che, in forza della sua presenza, sono capaci di vivere come lui, come cioè piace a Dio.
“IO SONO”
Una legge di libertà
Il Decalogo è dono di Dio, è rivelazione di Dio inserita nella alleanza. Il senso del Decalogo, nella pienezza della rivelazione biblica, si riconosce come relazione di amicizia, legame amoroso fra l’“Io” divino e il “Tu” umano. La struttura fondamentale del Decalogo è infatti un dialogo: “Io–Tu”. Si tratta, come abbiamo già visto, di un testo sintetico che probabilmente non è nato all’inizio, ma è stato rielaborato dalla tradizione mosaica sintetizzando, cioè cercando gli elementi essenziali e fondamentali.
È il risultato di una riflessione teologica illuminata dalla grazia di Dio, quindi c’è l’ispirazione di Dio e il ragionamento umano. Nel Decalogo si esprime infatti la legge naturale, quei principi naturali che Dio ha scritto nel cuore dell’uomo, ma che non sono visibili automaticamente, perché l’umanità peccatrice ha perso la chiarezza della coscienza e quindi c’è stato bisogno di una rivelazione: Dio ha rivelato quello che era già scritto.
L’opera del Cristo, che crea il cuore nuovo, mette in evidenza quello che c’è scritto nel cuore; quello che è proposto dal Decalogo appartiene quindi alla umanità più vera e profonda.
La libertà nella negazione
Questa raccolta di dieci precetti ha per lo più la forma negativa. In termine tecnico si dice che sono norme apodittiche, nel senso che danno un comando preciso e semplice: “Fai questo, non fare quello”. Altre norme, invece, sono considerate casuistiche cioè: “Nel caso in cui ti succeda questo ti comporterai in questo modo”; “Se il tuo nemico ti fa questo allora tu gli risponderai così”. Qui ci troviamo di fronte a delle indicazioni schiette, semplici, brevi e per lo più in forma negativa; non lasciatevi ingannare perché la forma apodittica negativa è quella più universale e più precisa. Non è negativa nel senso che riduce, anzi amplia. Cerco di spiegarmi.
Se io ti do un comando positivo, ti do una indicazione e ti limito la strada, perché ti offro una sola possibilità. Infatti, se ti dico: “Prendi questo libro” ho parlato di libro e solo di questo, per cui l’ordine, anche se è positivo, è limitante, estremamente limitante, perché ti dice quello che devi fare, restringendo l’azione del prendere a dei libri e in particolare a questo libro. Ti sembra un discorso positivo, ma in realtà è estremamente limitante.
Invece dicendo: “Non uccidere” sto ampliando il campo perché ti dico che l’uccisione, la negazione della vita non è cosa buona; prendi la strada che vuoi, vai dove vuoi, purché sia vita. Ecco come è diverso! La forma apodittica negativa non restringe, ma amplia, libera, è la più universale e la più precisa, perché esclude ciò che è male, ma ti lascia il campo aperto nella iniziativa. È quindi una autentica legge di libertà, è il fondamento della liberazione, riguarda le azioni umane e privilegia proprio l’umanità, perché è una legge che valorizza la persona umana e ne difende la libertà. Per questo, saggiamente, i legislatori di Israele hanno inserito il Decalogo nel contesto della alleanza stipulata da Dio con il popolo liberato dalla schiavitù.
Un altro aspetto che giustifica il precetto formulato al negativo riguarda anche la necessità di evitare che – obbedendo a una precisa indicazione – l’uomo si ritenga in credito con Dio avendo eseguito la legge. Era quello che la dottrina giudaica sosteneva. Questa infatti – aumentando a dismisura i precetti – poneva l’uomo come in un recinto; obbedendo alla legge ognuno era nella certezza di potersi salvare per proprio merito. Sarà proprio questa la rivelazione di Gesù: l’uomo non è autosufficiente e, in quanto alla salvezza, non è in grado di potersi salvare con i propri mezzi. La legge infatti dà delle indicazioni, ma non la capacità di obbedire ad essa. Per la nostra salvezza è necessario e indispensabile il dono della grazia che Gesù ci ha ottenuto con il suo sacrificio di passione, morte e risurrezione. Solo attraverso la grazia abbiamo la capacità di obbedire alla legge e quindi poter arrivare alla vita eterna, quella con Dio.
Appena liberati dalla schiavitù dell’Egitto gli israeliti ricevono la costituzione che ne fonda e garantisce la libertà; il Decalogo è la condizione per rimanere liberi, per non ritornare nella schiavitù.
Ho detto “rimanere liberi” perché l’opera di liberazione è di Dio. Noi non ci liberiamo da soli, noi possiamo solo custodire la libertà che ci è stata donata. L’opera iniziale è di Dio che crea la vita, noi dobbiamo custodire la vita; l’opera iniziale è di Dio che crea la libertà, noi dobbiamo conservare la libertà. L’opera iniziale è di Dio che ama l’uomo e lo rende capace di rispondergli con l’amore, per cui noi possiamo amare colui che ci ha amati per primo. Ma la parola libertà è quella che meglio rende il senso del Decalogo: è una legge di libertà.
Tutte le nostre riflessioni saranno proprio incentrate su questo grande tema: ascoltare la parola di Dio significa rimanere liberi, conservare quella libertà – dal peccato e dal male – che il Signore ci ha donato.
Anche se ci sono due orientamenti, uno verso Dio, l’altro verso il prossimo, il Decalogo è decisamente un testo unitario, cioè costituisce un tutto indissociabile; ogni parola rimanda alle altre, a tutte le altre e tutte si condizionano reciprocamente. Non si assolutizza un testo al posto di un altro, non si può prendere qualcosa e lasciare qualcos’altro. L’unità organica implica l’accoglienza totale. Il valore del Decalogo è quello di essere singolare: ecco perché è meglio usare la parola “il Decalogo” piuttosto che “I dieci comandamenti” non è una molteplicità, ma una unità.
La redazione di s. Agostino
Questa unità ha una struttura. Abbiamo già visto come, nella tradizione della chiesa, sia stato s. Agostino a dare una grande valenza catechistica al Decalogo, riducendolo in forma essenziale e adattandolo alla tradizione cristiana. È Agostino che dice: le due tavole contengono i due tipi di comandamenti: da una parte ci sono quelli che riguardano Dio, dall’altra parte quelli che riguardano il prossimo. Vi leggo le parole del grande dottore:
Come sono due i comandamenti dell’amore, nei quali si compendia tutta la Legge e i Profeti – come diceva il Signore – così gli stessi dieci comandamenti furono dati in due tavole. Si dice infatti che tre fossero scritti in una tavola e sette in un’altra.
Eccola qui la fonte: «Si dice che». Dove s. Agostino abbia preso l’informazione non si sa, probabilmente se la è inventata, è una sua riflessione: due tavole come i due comandamenti fondamentali. Nella prima tavola l’amore di Dio, nella seconda tavola l’amore del prossimo e allora: tre su una tavola e sette nell’altra e così nelle raffigurazioni avrete potuto vedere almeno i numeri romani scritti in questo modo.
Io mi permetto di dissentire, perché osservando il testo avete notato che non sono tutti formulati negativamente, ma ce ne sono due formulati in modo positivo e sono al centro: “Ricordati di santificare il sabato” e “Onora il padre e la madre”. Quelli sono gli unici due positivi, con due imperativi: “Ricordati, onora”. In tutti gli altri casi abbiamo invece dei futuri: “Non avrai altri dei; non ti farai immagine; non nominerai il nome di Dio; non ucciderai; non commetterai adulterio; non ruberai; non dirai falsa testimonianza; non desidererai la donna del prossimo; non desidererai la roba del prossimo”.
Allora una migliore divisione nel Decalogo può essere tri-partita. Anche se le tavole sono solo due non fa niente: lo schema originale del Decalogo non dipende dalle due tavole.
Il Decalogo è formato da tre tipi di precetti preceduti da una presentazione iniziale:
- Io sono il Signore Dio tuo.
I primi tre riguardano Dio:
- Non avrai altro Dio fuori di me,
- Non ti farai immagine alcuna
- Non nominare il nome di Dio invano,
Poi due centrali che sono il cardine di tutta la normativa; sono i comandi che prevedono di unire i due aspetti fondamentali; sono i due elementi di unione, il perno che tiene insieme le due tavole:
- Ricordati di santificare le feste
- Onora il padre e la madre,
Poi ci sono i precetti che riguardano il prossimo. Io staccherei quello dei genitori perché è positivo insieme al precetto del sabato e allora ne restano sei e sono strutturati 3+3; i primi tre sono semplici formule apodittiche:
- Non uccidere,
- Non commettere adulterio,
- Non rubare.
Gli altri tre riprendono questi tre con relazione al prossimo:
- Non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo, si avvicina al non uccidere;
- Non desiderare la donna del tuo prossimo, si avvicina al non commettere adulterio;
- Non desiderare la roba del tuo prossimo, si avvicina al non rubare.
Questa raccolta unitaria, ben strutturata, esprime la relazione fra Dio e il suo popolo e questo è il punto fondamentale da cui partiamo.
Dio ha amato per primo, Dio è entrato nella storia e ha agito prima che l’uomo se lo meritasse. All’inizio del Decalogo c’è l’amore del Dio unico che si è rivelato; i vari comandi esplicitano la risposta d’amore che l’uomo è chiamato a dare al suo Dio.
Leggiamo il testo in Esodo.
“Io sono”
Es 20,1 Dio allora pronunciò tutte queste parole: 2“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: 3non avrai altri dei di fronte a me
Prima del primo comandamento c’è la presentazione di Dio: “Io Sono”. Tutto comincia con la rivelazione dell’“Io Sono”. Dobbiamo sostare proprio su questo perché è l’elemento determinante.
«Io sono il Signore». Dietro al termine “Signore” sappiamo che in ebraico c’è il nome proprio YHWH, non lo pronunciamo per rispetto, ma “il Signore” non è un termine generico, ma un nome proprio; indica quindi una personalità distinta, l’Essere divino conosciuto per nome, non un ente divino, non un motore primo o un qualcosa che deve esserci, ma una persona.
“Io sono il Signore” è la rivelazione di un “io” personale, non una cosa, non una energia, non una forza, ma una persona, uno che dice “Io” e si rivolge a un “tu”: “io ti ho fatto…”.
«Io sono il Signore, tuo Dio». Non semplicemente il Signore si rivela in sé, ma si rivela in relazione a te: “Io sono il tuo Dio” e tu riconosci questa relazione. Il Decalogo si fonda su questo dialogo “Io-Tu”; Io sono il tuo, Io sono tuo. Questa è una dichiarazione d’amore, non è un comando, è una apertura del cuore, è un dono di sé: “Io sono tuo”.
Io sono il Signore e sono tuo in quanto Dio, ma sono strettamente legato a te e che io sia il tuo Dio lo puoi capire dal fatto che sono intervenuto a tuo favore, ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù. Io ho fatto uscire te.
Il dono precede la legge
L’esodo è il fondamento di questa relazione. La storia guidata da Dio fonda il diritto di Dio. Che diritto ha Dio di chiedere qualcosa a Israele? Notate che il diritto non è fondato sulla creazione. Non dice infatti: dal momento che io ti ho fatto… comando io!. Non è il tipico discorso del genitore: “Io ti ho messo al mondo, quindi le regole te le do io, tu fai quello che dico io; finché pago io in questa casa comando io! Chiaro?”.
Non è questo il discorso di Dio, il suo non è un discorso di autorità creativa, ma di intervento redentivo. Il Decalogo non si fonda sulla creazione, ma sulla redenzione: io sono il Signore tuo Dio che ti ho redento; in forza di quello che io ho già fatto per te – liberandoti – non ti ordino, ma ti faccio notare che la naturale conseguenza è che tu rimanga legato a me. È evidente in questo inizio il rapporto di conseguenza: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla schiavitù; non avrai altri dei di fronte a me.
Dal momento che sono io ad averti liberato, è logico che tu sia legato a me, non ad altri; dal momento che io sono tuo, è giusto che tu riconosca di essere mio.
È la situazione di uno che ama e che chiede di essere amato e rivela che questa è la logica dell’essere veramente uomo: rispondere all’amore con l’amore, aderire con tutto il cuore a colui che ti ha dato tutto il cuore.
Soffermiamoci allora anzitutto su questo inizio fondamentale del Decalogo, che prima di essere comando è rivelazione. Il Dio unico e vero rivela la propria gloria a Israele; nella teofania Dio si manifesta dicendo al popolo: se vuoi essere mio alleato io ti ho reso possibile questa collaborazione.
L’appello fondamentale di Dio è che l’umanità riconosca ciò che Dio ha già fatto e lo accolga, risponda all’amore con l’amore e lo riconosca come Dio. Questa è l’immagine e somiglianza di Dio: l’uomo creato a immagine di Dio rispecchia l’opera di Dio, lo riflette.
La nostra riflessione non è tanto opera intellettuale, quanto piuttosto restituire l’immagine di Dio. Noi diventiamo immagine di Dio rispondendo a lui con il suo stile e quindi il Decalogo non ci ordina che cosa dobbiamo fare, ma ci indica la strada per imitare il Signore.
Un principio antico, evidenziato molto bene dal così detto catechismo romano – che era il grande documento del Concilio di Trento che sintetizzava la tradizione antica – dice: «Nell’esplicita affermazione divina “Io sono il Signore tuo Dio” è incluso il comandamento della fede, della speranza e della carità».
Quindi all’inizio di tutto, prima delle azioni, c’è la relazione. Dio, rivelandosi come il Signore nostro Dio, ci chiede di credere in lui, ci chiede di sperare in lui, ci chiede di amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze. La nostra vita morale trova la propria sorgente nella fede in Dio, nell’obbedienza della fede, come dice s. Paolo, cioè nella risposta aperta, accogliente.
Il nostro dovere fondamentale è quello di credergli. La rivelazione di Dio ci pone innanzitutto la richiesta di nutrire e custodire la nostra fede, con prudenza e vigilanza e ci chiede di respingere tutto ciò che è contrario alla fede.
Attenzione, perché qui per fede non intendiamo l’accettazione di dottrine, ma una relazione di fiducia con la persona stessa di Dio.
Il dubbio volontario
Ci sono diversi modi di peccare contro la fede. Per evidenziare l’aspetto positivo delle cose ci riesce sempre più facile vedere il loro lato oscuro, perché eliminando quello possiamo recuperare quello luminoso.
Il dubbio volontario è un atteggiamento di peccato contro la fede che trascura o rifiuta di ritenere vero ciò che Dio ha rivelato. È l’atteggiamento della incredulità, è una noncuranza verso la verità rivelata: rifiuto volontario di dare il proprio assenso.
Speriamo di non essere in una situazione del genere, ma se noi abbiamo dato il nostro assenso alla rivelazione di Dio, è possibile molte volte il dubbio involontario, cioè l’esitazione a credere. La difficoltà nel superare le obiezioni legate alla fede o anche l’ansia causata dalla oscurità della fede, la paura che Dio non risponda o non agisca, l’angoscia per il silenzio di Dio è un atteggiamento spirituale sempre in agguato. Tutto questo rientra nella nostra debolezza creaturale che deve essere superata in una adesione ferma, convinta, luminosa, all’Io sono, all’“Io ho già operato per te”; considera quindi che io ti ho già liberato, il più è già stato fatto e l’ho fatto io. Di conseguenza tu puoi sperare in me. Credere in Dio comporta la speranza; sono virtù teologali strettamente congiunte.
La speranza è l’attesa fiduciosa – ma certa – che Dio compia la sua promessa. È un desiderio certo che la benedizione di Dio si compirà, è il desiderio che si compia quello che Dio ha promesso. E la speranza contiene anche il timor di Dio, timore di offendere l’amore di Dio.
Questo primo comandamento, così radicale e originario, può essere offeso anche dai peccati contro la speranza che sono sostanzialmente due: la disperazione e la presunzione.
La disperazione è quando una persona cessa di sperare da Dio la propria salvezza personale, non attende più gli aiuti per conseguire la salvezza, non attende più il perdono dei propri peccati. È il peccato di Giuda che ha considerato il suo peccato imperdonabile, più importante della sua stessa persona. La disperazione è il contrario della speranza, è la colpa tragica di Giuda: non spera salvezza, non c’è più niente da fare; non crede alla bontà di Dio e alla sua giustizia, alla sua fedeltà e alla sua misericordia. L’atteggiamento di disperazione in fondo è rifiuto di Dio, rifiuto del dialogo: io non accetto più di dialogare con te; è chiuso ogni discorso.
All’opposto della disperazione si pone la presunzione che è frutto dell’orgoglio; la persona umana talvolta presume delle proprie capacità. Presume, cioè dà a se stesso più peso di ciò che si merita: “Io sono capace da solo”, “Io mi salvo con le mie forze”.
La presunzione può anche assumere la forma di chi abusa della misericordia di Dio ed è convinto di ottenere il suo perdono senza conversione e senza merito; per il semplice fatto che il Signore è buono e perdona… io non devo fare niente. Presumo di valere troppo o presumo che il Signore non mi chieda niente.
Sono atteggiamenti molto simili nella loro differenza. Sono condizioni abbastanza comuni e radicali e più sono essenziali, più sono diffuse; sono pericoli che stanno alla base della persona e devono essere superati.
L’alleanza chiede un nuovo tipo di relazione e anche evidenziare questi mali ci serve per rinnovare l’alleanza, per superare questi difetti. Credere e sperare nel Signore significa soprattutto amarlo, è la terza virtù teologale, cioè che viene da Dio e riguarda Dio.
Il Signore ci chiede di credergli, di attenderlo e di amarlo; credere e sperare significa amare, le tre realtà stanno insieme, sono tre aspetti dell’unica relazione. Allora, nella rivelazione fondamentale, Dio ci chiede di amarlo al di sopra di tutto, ci chiede di amarlo più di ogni creatura, per lui stesso e a causa di lui. L’amore è causa di se stesso, l’amore è fine di se stesso: amo perché amo, amo per amare. Dio è bene in sé che merita di essere amato per sé, non lo amo per avere, lo amo perché merita di essere amato e basta. Quale ricompensa avrò dell’amare il Signore? Averlo amato!
Indifferenza e accidia
Il primo grande peccato contro l’amore è l’indifferenza, cioè l’atteggiamento incurante della carità divina, che rifiuta di prenderla in considerazione o non apprezza l’iniziativa o ne nega la forza. Peccato contro la carità è l’ingratitudine che non riconosce quell’amore personale di Dio, non tanto le cose che ci ha dato, quanto il fatto che personalmente ci ama e che ci chiede amore per amore. Peccato contro l’amore è la tiepidezza o la freddezza. Tiepido è già poco, freddo è ancora peggio, è il contrario del calore. Un amore tiepido, un amore freddo, esitante e negligente nel rispondere porta a un rifiuto di abbandono personale e vedete come non è lontano dalla nostra realtà: indifferenza, ingratitudine, tiepidezza, sono purtroppo situazioni di fondo.
Quando uno fa l’esame di coscienza sui comandamenti dice: “non ho ucciso”, ma prima doveva chiedersi altre cose e allora cerchiamo di scavare dentro a questo dono di rivelazione: Io sono il Signore tuo Dio e tu mi rispondi con la pigrizia?
Questo è un altro peccato contro la carità; è il settimo vizio capitale, l’accidia, cioè la forma di pigrizia spirituale, è quella che oggi chiamiamo depressione. Talvolta è malattia, talvolta è stato d’animo; è un vizio capitale, è uno strumento diabolico per rovinare la persona. In greco era chiamata “akédia”, cioè la mancanza di risposta, di relazione, di affetto. È il rifiuto della gioia, della gioia che viene da Dio: è quasi la nausea per il bene divino. Poi si arriva a situazioni strane dove addirittura si ingenera l’odio di Dio che nasce dall’orgoglio: mi dà fastidio tutto quello che riguarda il Signore.
L’indifferenza, l’ingratitudine, la tiepidezza, la pigrizia sono tutte piccole cose che portano poi a una condizione pessima; è qui che si radicano poi le colpe gravi, ma questo è l’elemento di fondo che determina l’alleanza o la rottura.
Chiediamo al Signore che ci aiuti a riconoscere la sua presenza, a credergli, ad attendere la sua beatitudine e ad amarlo con tutto il cuore, non con un pezzetto, ma con tutto il cuore, per rispondere all’amore con l’amore. È la prima fase, è il primo passo, fondamentale, in cui il mio io risponde alla rivelazione del tu umano a cui Dio si è rivolto e le tre virtù teologali esprimono il fondamento dell’alleanza.
I. “Non avrai altro Dio fuori di me”
Siamo finalmente pronti per meditare le Dieci Parole che esprimono la rivelazione di Dio e la sua relazione fondamentale con il popolo dell’alleanza. La prima parola nella formula catechistica è stata ridotta a “Non avrai altro Dio fuori di me”, ma il testo biblico – sia dell’Esodo, sia del Deuteronomio – è molto più ampio e le differenze tra i due testi sono minime, trascurabili.
Es 20,2“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: 3non avrai altri dei di fronte a me. 4Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. 5Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, 6ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
È chiaro che tutto questo discorso non poteva essere scritto sulle tavole; è quindi evidente che ci troviamo di fronte ad un ampliamento tipico della predicazione dei profeti della corrente che chiamiamo deuteronomica. È però importante osservare che al primo comandamento è connessa una predicazione così ampia; anzi, nella tradizione giudaica i comandamenti sono due:
primo: non avrai altri dei di fronte a me,
secondo: non ti farai idolo né immagine alcuna.
Nella tradizione occidentale è stato soppresso questo secondo comandamento, mentre la tradizione bizantina l’ha conservato, così come la tradizione dei riformati – i protestanti – i quali, per una fedeltà biblica, riducono le immagini. I protestanti sono tornati alla forma più arcaica del rifiuto totale delle immagini, mentre i bizantini rifiutano le sculture perché le considerano immagini a tutto tondo che rappresentano la persona nell’intero e ammettono solo l’immagine dipinta su tavola. Ma andiamo per ordine.
Anzitutto: «Non avrai altri dei di fronte a me». Abbiamo visto che si tratta di una conseguenza, è l’effetto che deriva dalla piena relazione con il Signore tuo Dio. Dal momento che io sono il tuo Dio e ti ho liberato, tu non avrai altri dei di fronte a me.
Dunque, la prima parola vieta di onorare altri dei all’infuori dell’unico Signore che si è rivelato al suo popolo. Proibisce la superstizione e quella che si chiama irreligione, cioè la negazione della religione, ma non semplicemente il rifiuto, bensì la perversione della religione. È logico che aderire al Signore con tutto il cuore comporta aderire a lui solo, rifiutando ogni imitazione, ogni falsità.
La superstizione
Il pericolo fondamentale è quello della superstizione che è un rivestimento sbagliato della religione. La superstizione è la deviazione del sentimento religioso, è la deformazione delle pratiche religiose. Il problema è che non si vede facilmente, perché si maschera sotto il culto che rendiamo al vero Dio. In fondo la superstizione consiste nell’attribuire eccessiva importanza ad alcune pratiche che compiamo in modo regolare; è un modo di deformare ciò che è giusto. La superstizione è un attaccamento eccessivo alla religione che dà troppo peso alla materialità dei segni e delle parole.
La superstizione comporta anzitutto l’idolatria e il primo comandamento proibisce il politeismo, la molteplicità degli dei. Mi direte che è un problema che noi abbiamo ormai superato da secoli, ma non è vero. Riemerge continuamente il politeismo, perché è l’effetto della frantumazione della personalità umana.
Se nel mondo antico Israele doveva essere messo in guardia dal culto agli dei degli altri popoli, noi adesso ci troviamo di fronte a situazioni ancora più pericolose perché sono equivoche.
Ci sono infatti nelle nostre tradizioni religiose dei culti a Madonne e a santi che si avvicinano molto alla superstizione e al politeismo. Il fatto stesso di parlare di “Madonne”, il fatto che uno dica di essere devoto alla Madonna dell’arco a differenza della consorella che è devota alla Madonna del ponte, indica che ci sono due differenti devozioni e quindi c’è, di fatto, un politeismo madonnaro che è chiaramente frutto dell’ignoranza. Non è teorizzabile; come fa uno a essere devoto a una Madonna più che a un’altra? Teologicamente non è spiegabile, è un atteggiamento assolutamente senza fondamento.
C’è gente che va poco in chiesa o niente, però a Padre Pio ci crede. Sono problemi concreti di superstizione, dove il problema non è Padre Pio in sé, ma nel modo con cui certe persone si rapportano a Padre Pio: ne hanno fatto un idolo, un antagonista di Dio, una alternativa. E questo accade perché l’interesse non è imitare le virtù di Padre Pio – la penitenza e la preghiera – ma è ottenere qualche favore: che mi protegga, che mi difenda, che mi faccia vincere al Superenalotto. Questa è la mentalità idolatrica, superstiziosa, che si radica anche nella nostra tradizione religiosa.
Ho letto recentemente di un problema venuto nel sud d’Italia, in una cittadina della Basilicata, dove il vescovo stesso è voluto intervenire per una festa patronale, avendo concordato da prima di non mettere all’asta il trasporto della statua del santo con l’offerta di soldi e soprattutto di non appendere le banconote sulla statua. Presente il vescovo, hanno fatto tutto quello che aveva detto di non fare, per cui lui ha abbandonato la processione e ha lanciato l’interdetto sulla parrocchia, cosa che non avveniva più da tempo.
“Interdetto” vuol dire che in quella parrocchia non si può più celebrare nessun sacramento finché non viene fatto atto di penitenza. È chiaro che quel vescovo ha visto – in quella comunità cristiana così devota nei confronti di un santo – un atteggiamento che sta tranquillamente nel politeismo superstizioso, nella idolatria.
C’è una statua che viene idolatrata, c’è una idea fissa che viene sostituita a Dio. Ma il problema non è la statua, non è quel santo, il problema è l’orgoglio delle persone che vogliono fare quello che hanno in testa loro, perché l’idolo fondamentale è l’immagine che tu vedi nello specchio. Il termine greco «ei;dwlon» (èidolon) vuole infatti dire “immagine”.
L’idolo fondamentale è il tuo io, è l’orgoglio della tua individualità, che comporta la prepotenza di fare quello che hai in testa tu, quello che piace a te.
E c’è anche un orgoglio di paese, legato a delle abitudini: “Abbiamo sempre fatto così, non c’è padreterno che tenga; se abbiamo sempre fatto così… continuiamo a fare così”.
È un orgoglio di gruppo, ma è una situazione che ha bisogno di essere evangelizzata, educata, perché non è nell’alleanza con il Signore. C’è una apparenza di cristianesimo, ma in realtà è superstizione idolatrica e su questo bisogna lavorare molto. Come è vero infatti che nei paesi abbastanza giovani – ad esempio in Africa o in America – ci sono spesso situazioni di questo tipo, è anche vero, purtroppo, che simili atteggiamenti sono presenti anche in Italia; ci sono vicino a noi delle situazioni di autentica idolatria superstiziosa.
La scaramanzia, a sua volta, è un po’ come un sottoprodotto della superstizione. Si concretizza in un oggetto, una specie di amuleto, un idoletto di serie B o in un gesto che può essere profano, ma anche religioso (un segno della croce), ma che a poco a poco si infiltra, si insinua nella pratica e nella mente diventando pressoché indispensabile, necessario di fronte a situazioni in genere negative. Assume così le qualità dell’idolo e di questo tutti i caratteri negativi.
Idolatria è amore per sé e dispersione
Quando nella Scrittura si contesta il culto degli idoli, si sottolinea spesso che sono di argento e di oro, opera delle mani dell’uomo. Il problema è qui: l’uomo adora l’opera delle proprie mani.
Non è la questione della statua o del santo; il problema è che ognuno, istintivamente, adora l’opera delle proprie mani, cioè se stesso. C’è l’istinto ad adorare ciò che faccio io, a ritenere Dio quello che mi piace, quello che è il prodotto della mia attività. Questo è un dio manipolabile, che io riesco a controllare, a fare, a dominare. È il mio, ma non perché io mi dono a lui, ma perché lo controllo. Non è il Dio vivente.
Sal 115(113b),4Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. 5Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, 6hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. 7 Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni. 8Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida.
Seguendo cose vane si diventa vanità, sono opera morta, mentre il Signore è il Dio vivente e l’adesione a lui è una adesione vitale e vivente.
Ma l’idolatria non concerne soltanto i falsi culti del paganesimo o queste deviazioni all’interno della nostra stessa fede; idolatria è anche divinizzare ciò che non è Dio.
L’uomo è idolatra quando onora una creatura al posto del Creatore, quando dà importanza salvifica ad una cosa, anziché all’Autore di tutte le cose.
Allora il problema è, ad esempio, divinizzare le forze della natura o le potenze diaboliche. Pensate anche alla diffusione strana, ma tragicamente abbondante, del satanismo nelle nostre regioni cristiane. Molti giovani sono attirati da questi culti satanici dove si fa la parodia del culto a Dio, stravolgendolo nel culto diabolico: adorando il male al posto del bene.
Ci sono poi le idolatrie pratiche, lo sappiamo bene, dove si mette al primo posto il potere, la ricchezza, il piacere; oppure si divinizzano dei valori: la razza, gli antenati, lo stato. Sono tutti atteggiamenti che imitano la religione, ma la rovinano. Pensando alla storia anche recente, chi ha dato troppo peso alla razza o allo stato ha finito per schiacciare l’uomo.
«Non avrai altri dei di fronte a me» è un precetto di libertà perché tutto ciò che non è Dio schiavizza l’uomo. Se l’uomo considera Dio ciò che non lo è si rovina. La vita umana, invece, nell’adorazione dell’unico Dio, viene unificata, semplifica l’uomo e lo salva da una dispersione senza limiti. L’immagine politeistica di tante forze fa sì che l’uomo non sia unitario, ma si senta preda di una miriade di forze diverse, contrastanti, e non sappia come rapportarsi a tutte queste.
La frantumazione che oggi viene denunciata della esperienza delle famiglie e delle persone si radica in gran parte proprio nella mancanza di unità nella relazione con il Signore; manca questa unificazione e semplificazione della vita: “Solo per te, Signore, tutto a te”. Solo per te, tutto a te, dice una semplice totalità. Non sono a pezzi, sono tutto unito, non sono diviso, sono tutto e solo per te. Questo semplifica la vita, la unifica e la valorizza, mentre l’idolatria è dispersiva. Possiamo verificare anche nella nostra esperienza se è vero che esiste questa unità semplice o se, anche nella nostra esistenza, c’è una dispersione molteplice.
Divinazione e magia
La superstizione si concretizza anche nella divinazione e nella magia.
La divinazione è il ricorso a varie forme per soddisfare una curiosità malsana, quella di sapere sull’al di là o sulle forze che reggono la vita. Nascono allora tutte quelle formule degli oroscopi, dell’astrologia, della chiromanzia (cioè la lettura della mano), l’interpretazione della sorte, dei presagi, i fenomeni di veggenza, persone che hanno dei poteri paranormali, i medium, le sedute spiritiche, l’evocazione dei morti.
Sono tutte cose che girano nei nostri ambienti; sono strade che, persone che hanno perso una persona cara, finiscono per prendere come consolazione, ma è una strada di disperazione. Anziché sperare nell’unico Dio, disperando si ricorre alle forme superstiziose di divinazione per poter incontrare qualcosa, per poter sentire una voce, per poter essere garantiti. Tutte queste forme, antichissime – esistono da che mondo è mondo – sono trucchi, oppure sono realtà diaboliche. O sono semplici invenzioni di uomini che ingannano altri uomini, oppure, se c’è qualche cosa, è qualcosa di demoniaco, c’è di mezzo il diavolo. Ricorrere a queste forme allora è assurdo perché: o so di farmi imbrogliare, oppure so di avere un contatto con il demoniaco. È una situazione di rottura dell’equilibrio personale e di rottura dell’alleanza.
Così anche la magia, con tutta la carica di amuleti e di portafortuna. La magia è attribuire a gesti, cose, riti o altre produzioni umane, virtù e capacità miracolose e quindi metterle in concorrenza con Dio e ritenerle – o, meglio, farle credere – frutto delle proprie capacità. Su molte cose noi tranquillamente scherziamo o ridiamo, però sono tutte piccolezze che possono diventare con il tempo significative.
Avete mai notato come tante volte, nelle liturgie – quando ci si scambia il segno della pace – se si incrociano le braccia la gente tira indietro il proprio braccio dicendo: “non facciamo la croce, perché porta male”. Certo che la croce porta male, è uno strumento di morte; ma che un cristiano, in chiesa, nella celebrazione eucaristica, abbia paura di incrociare il braccio perché “porta male” è assurdo. Dovrebbe pensare, tutt’al più, che proprio quella croce a lui ha portato bene e se è lui lì è proprio per quella croce che troneggia a fianco all’altare.
Cose del genere però se ne fanno molte e sono il frutto di una scarsa maturità religiosa.
Diminuendo la fede cresce la superstizione; diminuendo la formazione aumenta il culto idolatrico, perché la religione è istintiva, ma seguendo semplicemente l’istinto si ramifica in forme distorte. È come un prato abbandonato: non resta la terra pulita, crescono le erbe, ma non diventa un orto.
Quando vi accorgete che cresce il senso religioso non esultate troppo, perché la crescita del senso religioso non significa che viene fuori un bell’orto, viene fuori un campo di erbacce. È cresciuto del verde, ma non sono verdure buone, sono tutte erbacce, difficilissime da togliere. La religione di per sé non è una cosa buona automaticamente; se non è formata e orientata è un disastro e questo vale anche per noi. Diventa quindi importantissimo educarci a una religiosità corretta, perché la superstizione sta anche nell’esagerare il valore di certe pratiche, dove meccanicamente riproduciamo certe azioni perché riteniamo che abbiano una efficacia solo per il fatto di averle compiute; non lasciano però il segno, non cambiano la persona, non maturano la qualità della vita.
Non avere altri dei di fronte al Signore significa non attaccarci a nessuna pratica, non idolatrare nessuna delle nostre strutture, dei nostri schemi, perché niente è Dio al di fuori di Dio. Molte cose possono servire, ma tutto deve essere orientato a lui e allora dobbiamo domandarci se certi gesti, certe pratiche, ci avvicinano al Signore, se fanno crescere il nostro amore per lui. In questo caso sono buone, ma se non servono a niente allora non ha valore ripeterle semplicemente perché portano bene. È una superstizione, è una devozione superstiziosa che non fa crescere la persona.
L’irreligione: sacrilegio, simonia
C’è poi l’altra grande questione della irreligione: sono gravi peccati contro la relazione con Dio: tentare Dio è il primo peccato di irreligione, metterlo alla prova, pretendere che il Signore faccia quello che dico io, sfidarlo. Accenno semplicemente ai peccati di irreligione che sono il sacrilegio e la simonia.
Il sacrilegio è la profanazione dei sacramenti, è l’azione con cui si trattano male le azioni liturgiche, le persone, gli oggetti, i luoghi consacrati a Dio. È possibile forse che in un atteggiamento di noncuranza e di freddezza noi possiamo arrivare al sacrilegio liturgico, a messe dette di corsa, a riti fatti in modo superstizioso e superficiale.
La simonia è la pretesa di comperare o vendere le realtà spirituali. Sappiamo che nella storia ci sono stati gravi esempi di questo peccato. Noi oggi abbiamo l’impressione di averlo superato, ma la mentalità economica legata alla salvezza è un aspetto della simonia: comperare la grazia di Dio.
L’idea che una persona accenda una candela in modo tale da avere come contropartita il favore che chiede è un principio di simonia. Io compro quello che mi interessa. È come il mercato: io do una certa quantità di soldi e ottengo la merce che mi interessa.
Il problema della offerta per le messe è un problema serio perché di per sé ha una impostazione teologica corretta, poi però di fatto molte volte, nella mentalità della gente, c’è una deformazione, c’è l’idea di comperare la messa: la messa è mia, perché l’ho pagata. Tutte queste idee serpeggiano e hanno bisogno di essere purificate. Avere solo il Signore come Dio fa pulizia di tutti questi atteggiamenti scorretti.
Il cambiamento cristiano a proposito delle immagini
«Non ti farai immagine scolpita». Questa ingiunzione divina comportava il divieto di rappresentare Dio con strumenti fatti dalla mano dell’uomo. La tradizione biblica è stata rigorosa in questa direzione anche se c’è una notevole documentazione antica della presenza di immagini. Ad esempio, quando Dio dice a Mosè di farsi il serpente di bronzo, gli fa fare una immagine e quel serpente è stato custodito nel tempio per secoli.
Sull’arca dell’alleanza sono raffigurati i cherubini, quindi ci sono delle immagini, e le descrizioni dell’antico tempio parlano di immagini che decoravano il tempio stesso.
L’idea del rifiuto assoluto delle immagini è allora posteriore, frutto di un atteggiamento intellettualista che riconosce solo la persona come immagine di Dio, non riproducibile: l’uomo vivente è immagine di Dio, non se ne può fare alcuna copia.
Il cambiamento della prospettiva cristiana è dovuto all’incarnazione. Fondandosi sul mistero del Verbo incarnato la chiesa ha ritenuto lecito raffigurare i misteri divini.
È stato il settimo Concilio ecumenico, tenuto a Nicea – il secondo concilio di Nicea, nell’anno 787 – a formulare ufficialmente il culto delle icone, delle immagini, dicendo che dal momento in cui Dio si è fatto carne ed è divenuto uomo, ha inaugurato una nuova economia delle immagini, quindi il divino è raffigurabile. Quel concilio diceva però che non si può raffigurare Dio Padre né lo Spirito Santo e in questo noi abbiamo esagerato.
Le raffigurazioni del Padreterno come il buon vecchietto con la barba lunga e certe volte con pochi capelli, con il pallone in mano a simbolo della terra, non ha aiutato. Quello non è raffigurabile, perché Dio è puro Spirito. È raffigurabile il Cristo e i misteri della vita terrena del Cristo, ma le scene celesti, invisibili, quelle sono scorrette, anche perché hanno deformato la visione di Dio.
Ora è bene precisare che, nel culto alle immagini, l’onore è rivolto a colui che è rappresentato, non all’immagine in sé; non si parla di adorazione se non per Dio, si venera la Beata Vergine Maria e i Santi. Si venera e si onora una immagine, quindi è importante imparare a distinguere l’immagine dalla persona che mi richiama. Noi possiamo avere la fotografia di una persona cara, magari defunta, e dare un bacio alla sua fotografia. È chiaro però che non è la fotografia che interessa, ma la persona che vi è raffigurata che è lontana.
Allora nessuno di noi si offenderebbe se una persona cara baciasse la fotografia anziché baciare lui. È chiaro che, se hai la mamma lì vicino, abbracci e baci lei; ma se è lontana o è morta, quella fotografia ti richiama la persona e, baciandola, compi un gesto di affetto, ma non è la foto in sé che diventa importante.
Allo stesso modo dobbiamo imparare a fare con le immagini religiose. Ogni immagine è come una fotografia della persona cara, mi interessa perché mi rimanda alla persona cara, ma non c’è la statua miracolosa che, toccandola, produce un effetto. Questa idea è pericolosa, perché io identifico la Madonna in quella statua lì, perché quella è una statua miracolosa e la Beata Vergine Maria mi interessa meno. Mi interessa quella statua miracolosa perché in fondo mi interessa solo il vantaggio che ne posso ricavare.
L’adorazione
Mt 4,9“Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai”.
Queste sono le parole che il Signore Gesù ha pronunciato nelle tentazioni del diavolo citando il testo del Deuteronomio. Io ti darò tutto questo se, prostrandoti, mi adorerai.
Ecco la grande tentazione che anche il Messia ha avuto: adorare il diavolo per avere tutto il potere del mondo. No! Gesù rifiuta:
10Ma Gesù gli rispose: “Vattene, satana! Sta scritto: “Adora il Signore Dio tuo” “e a lui solo rendi culto””.
È la prima parola, fondamentale. Allora, l’atteggiamento corretto della nostra relazione con Dio è la virtù di religione che comporta anzitutto l’adorazione. L’atteggiamento di adorazione non è un rito che si fa in cappella con il Santissimo esposto, ma è un modo di essere, di rapportarsi al Signore: adorare Dio significa riconoscerlo come il Creatore e il Salvatore, il Signore, il padrone di tutto, l’amore infinito e misericordioso.
Adorare il Signore significa riconoscere che io sono creatura e lui è il Creatore, che io sono nulla e lui è tutto. Questo lo posso fare in piedi o in ginocchio, ma anche da seduto, mentre taglio le cipolle, posso avere un atteggiamento di adorazione.
Attenzione però a non confondere il rito; si può stare in chiesa per un’ora con tutte le candele accese, i fiori disposti in modo panoramico e non avere l’atteggiamento giusto. Si può invece stare in cucina a tagliare verdura e fare adorazione vera. Il Signore è un cordless a lunga gittata, prende anche fuori dalla cappella; non è che solo lì abbia efficacia e quando siamo due stanze più in là è come se il Signore non ci fosse, come se “non ci fosse campo”, per dirlo in termini moderni.
Alla presenza di Dio ci siamo comunque, non è questione di qualche metro: ampliate la vostra mentalità. È vero che in cappella o in altro luogo propriamente religioso è più facile la concentrazione, l’attenzione – anche perché sollecitata da immagini sacre – ma tutto è sacro, tutto è di Dio: le montagne, i fiori, il mare, qualunque luogo della casa. Quindi ovunque dobbiamo essere in grado di sentire la presenza di Dio e ovunque possiamo adorarlo. Il Signore non è chiuso dentro gli edifici sacri. Tutti i fiori delle montagne onorano il Signore, non solo quelli messi vicino al tabernacolo. Il Signore vede quelli lì e tutti gli altri, tutti sono vicini a lui; l’addobbo floreale è una questione nostra; giustissima, se non diventa ossessione e non è fatta solo per il proprio compiacimento.
È allora una questione di cuore, di mentalità, di sottomissione assoluta: tu sei Dio. È l’atteggiamento di Maria che loda, esalta il Signore e umilia se stessa.
L’adorazione di Dio libera l’uomo dal ripiegamento su se stesso. Facciamo adorazione quando pensiamo al Signore, non a noi stessi; stare in cappella ad adorare il Signore e pensare a me, ai miei guai, ai miei mali, ai miei problemi, a quello che ho fatto questa mattina, a quello che farò domani, a quello che devo dire, a quello che mi hanno detto, non è adorare, è un ripiegamento su se stessi.
L’adorazione è proiettarsi sull’altro: lo possiamo facilmente verificate vedendo se la nostra preghiera è piena di “io” o di “tu”. Una preghiera di adorazione usa pochissimo l’io, mentre sottolinea il tu: “tu sei”. Io penso a te, io mi concentro su di te e mi libero dal ripiegamento su me stesso, dalla schiavitù del peccato; mi oriento a te liberandomi dall’idolatria del mondo, da quello che pretende il mondo.
Dall’atteggiamento di adorazione nasce la preghiera: la preghiera orale, fatta con le formule che conosciamo. Dall’adorazione nasce il sacrificio, l’offerta di sé, l’offerta delle proprie azioni. Il Signore ama il sacrificio, ma il sacrificio a Dio gradito è un cuore contrito e umiliato, cioè un atteggiamento personale di offerta, di dono, di umiltà, di creatura che ama il Creatore. Dalla adorazione nascono le promesse e i voti: prometto al Signore di fare questa opera buona, faccio voto al Signore di un atteggiamento, addirittura di me stesso.
I voti religiosi sono questo atteggiamento di adorazione del Signore e del Signore solo. Il voto è l’offerta di sé, è l’impegno di praticare i consigli evangelici per aderire solo e totalmente al Signore.
Allora una verifica della propria vita religiosa comporta anche questa valutazione di una autentica adorazione. Ho cominciato con l’aspetto negativo per terminare con gli elementi positivi; però, perché crescano quelli positivi, bisogna togliere quelli negativi. Non prostratevi a nessun altro che a Dio, non servite alcun altro Dio, siate liberi: solo adorando il Signore resterete liberi.
II. “Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio”
Il Signore è l’unico Dio – e vuole essere riconosciuto come unico – perché vuole la libertà della persona umana; ha fatto alleanza con noi perché ci vuole liberi, non servi.
Ritornando ancora sulla prima parola del Decalogo troviamo una insistenza sui verbi negativi al futuro: “Non avrai altri dei, non ti farai immagine scolpita, non ti prostrerai davanti a loro, non li servirai, perché io, il Signore, sono il tuo Dio”.
Dalla libertà alla servitù
Notiamo che c’è il verbo “servire”, mentre all’inizio c’era l’idea della libertà: “Io sono il Signore che ti libero, tu non servire agli idoli”. Questo è il nostro dramma: abbandonare colui che ci fa figli liberi, per servire chi ci schiavizza.
L’umanità, servendo gli idoli, diventa serva nel senso negativo, perde la propria libertà e si lascia dominare da altre forze. Questo è il pericolo del peccato. Ogni tradimento dell’alleanza ci riporta in una condizione di schiavitù. La nostra infedeltà all’unico Dio ci fa diventare schiavi, rovina la vita, fa perdere la vita. Il Signore non vuole che tu serva gli idoli perché tu gli appartieni.
Io sono il Signore tuo Dio, tu sei il mio popolo.
Non ti prostrerai davanti agli idoli quelle cose e non le servirai. Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per coloro che mi odiano,
Un Dio “geloso” non deve suonare come una affermazione negativa, ma come una sottolineatura positiva di grande affetto. Dio manifesta la sua gelosia in quanto è un amore totalizzante, dà tutto e chiede tutto e non accetta facilmente che il suo popolo passi ad altri.
Se l’amore è autentico non si può sopportare facilmente il tradimento, si sopporta se non si ama. Non dà infatti un gran fastidio l’allontanamento di una persona se non c’è un legame intenso e forte. Dio si rivela come una persona che ama in modo deciso e totalizzante, si presenta come un Dio geloso; tu gli appartieni e non accetta che tu non gli appartenga del tutto.
A questo punto viene ribadita una espressione – che ritorna anche altre volte nelle rivelazioni bibliche – che qualificano Dio come colui che interviene nella storia per ricompensare nel bene e nel male. Dio punisce la colpa fino a quattro generazioni, nel senso che di generazione in generazione si portano le conseguenze del bene e del male. In genere questa nota viene sottolineata soprattutto per l’aspetto negativo della punizione fino alla quarta generazione, ma serve invece per evidenziare l’aspetto positivo.
Una sproporzione immensa
ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Dio dimostra il suo favore fino a mille generazioni: è questo che bisogna evidenziare. È come dire: il male produce degli effetti negativi fino a quattro generazioni, ma il bene produce degli effetti positivi fino a mille generazioni. C’è una sproporzione enorme, è questo che bisogna evidenziare.
Il bene e il male non hanno la stessa forza. Il bene è molto, ma molto, ma molto più forte del male. Da quattro a mille c’è una notevole sproporzione. Considerando una generazione venticinque anni, quattro generazioni sono un secolo. Una scelta sbagliata in una famiglia produce dei danni per un secolo, ma mille generazioni quanti secoli sono? Il calcolo del perdurare della misericordia di Dio porta a venticinquemila anni, cioè duecentocinquanta secoli. Ebbene, da Gesù a oggi sono passati… solo duemila anni, cioè solo venti secoli. È una sproporzione immensa, va al di là di ogni nostra possibilità di controllo storico. Tutto questo significa che il bene produce un effetto che abbraccia tutta la storia. È un Dio geloso che vuole la risposta buona, non si accontenta di quella cattiva e annuncia che una risposta cattiva produce dei guai anche nelle immediate generazioni, mentre proclama che la risposta buona produce degli effetti positivi per una sterminata quantità di anni.
Coloro che ascoltano il Decalogo vengono divisi in due categorie: coloro che mi odiano e coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti. Tu da che parte stai? Noi non abbiamo dubbi, stiamo dalla parte di coloro che lo amano, che rispondono alla sua proposta di alleanza accettando di essere suoi alleati, di aderire a lui, ma non semplicemente con un contratto formale, bensì con un legame di affetto. Coloro che mi amano sono coloro che, di fatto, osservano i miei comandamenti, custodiscono la mia alleanza, vivono concretamente nello stile che io gli ho rivelato.
La seconda parola del Decalogo è ancora una conseguenza di questa relazione totalizzante con il Signore Dio.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.
Viene chiesto di non usare malamente il nome santo di Dio. Il secondo comandamento prescrive di rispettare il nome del Signore. È la relazione con lui che porta come conseguenza a regolare l’uso della parola a proposito delle cose sante.
Tra tutte le parole che il Signore ha rivelato al vertice c’è il suo nome proprio. Il nome di Dio rivela il mistero personale di Dio. Nel linguaggio biblico il nome corrisponde alla persona; conoscere il nome significa conoscere la persona, averne confidenza e intimità.
Chiamare per nome una persona indica conoscenza e confidenza. Il nome del Signore è santo perché è il Signore stesso. Il Signore è santo in quanto separato da tutto il resto, è altro, è distinto da tutto il mondo, da tutto quello che noi possiamo immaginare.
Il suo nome è la sua persona che noi non conosceremmo, perché con le nostre forze non ci è possibile arrivare a conoscerlo, ma egli si è fatto conoscere, ci ha rivelato il suo nome. In qualche modo si è messo nelle nostre mani, si è affidato a noi, non possiamo abusarne. È come se un amico ti confidasse un segreto, ti rivelasse qualche cosa di profondo, che concerne la sua vita personale, intima; lo dice a te perché si fida di te. Se tu usi quello che ti ha detto contro di lui, che amico sei? Allora capite che la questione del nome non è semplicemente relativa ad una formula esteriore come potrebbe essere la bestemmia.
“Invano”
Il secondo comandamento proibisce la bestemmia. Chiaro! Proibisce la bestemmia, ma dice molto di più, proibisce il parlar male di Dio. Notiamo però che il testo biblico insiste sull’avverbio “invano”.
Nell’originale ebraico c’è proprio l’idea di movimento verso una cosa vana. Anche in italiano possiamo recuperarlo: in–vano; non semplicemente inutilmente, ma verso la vanità, cioè qualche cosa che non vale. È fatto pertanto divieto di usare il nome di Dio in modo sconveniente, ovvero per un fine cattivo, inconsistente. Quindi non usare il nome di Dio per qualche cosa di negativo, non abusare del nome di Dio, non sfruttarlo, non usarlo per ciò che non è buono.
È chiaro che, se noi sottolineiamo l’aspetto negativo, riusciamo a riconoscere che c’è una enorme potenzialità positiva. Si dice qual è la strada da non percorrere lasciando aperta una grande quantità di altre strade, per cui proviamo a volgere in positivo questo comandamento. Non usare malamente il nome di Dio diventa, in positivo, pronuncia il nome in direzione buona, verso ciò che è solido, che è valido. Benedici il nome di Dio, loda, celebra, esalta, magnifica il nome di Dio, per il bene tuo e di quelli che ti ascoltano, per il bene dei tuoi e degli altri.
Il compimento positivo del comando è la lode, la preghiera, la celebrazione, è quello che il Signore Gesù ci ha insegnato con la prima invocazione del Padre nostro: “Sia santificato il tuo nome”. È il desiderio del Figlio che il nome di Dio sia santificato, sia riconosciuto come santo. Vedete che all’inizio dei comandamenti e anche all’inizio del Padre nostro c’è il riferimento al nome di Dio. La prima preghiera, la prima delle sette suppliche del Padre nostro riguarda il nome di Dio. Desiderare che il nome sia santificato è l’opposto di usarlo invano, di abusarne.
Santificare il nome di Dio significa mostrare chi è Dio, riconoscerlo per quello che è e adorarlo per quello che è, mostrare con la propria vita chi è Dio, con le proprie parole e con le proprie azioni, mostrare che Dio è Dio, non fare una caricatura di Dio. Nominare malamente il nome di Dio vuol dire anche deformarlo. Non devi quindi deformare l’immagine di Dio, non devi farti una immagine tua di Dio e nemmeno parlarne secondo l’idea di Dio che hai in testa tu.
Il rischio è quello di far fare brutta figura a Dio, per dirla con un linguaggio semplice. Noi, suoi alleati, rischiamo di fargli fare brutta figura o di presentarlo in modo negativo. Noi parliamo di Dio anche semplicemente stando zitti, per il fatto che siamo riconoscibili come uomini e donne di Dio e quindi il nostro modo di essere, di rapportarci, parla di Dio. Come ne parla?
Pronunciare invano il nome di Dio vuol dire usare Dio per i miei interessi: usarlo non è amarlo. L’idea antica era quella dell’adoperare il nome come una potenza magica: se è il nome di Dio ha una grande potenza e allora lo si può usare per fare le magie. Si può usare il nome di Dio come se usassimo una potenza, una energia, per farne quello che vogliamo noi.
Quante volte nella storia degli uomini si sono commesse gravi azioni negative “in nome di Dio”. Che cosa vuol dire “in nome di Dio”? Vuol dire che quello che facciamo noi lo attribuiamo a lui. Questo è usare invano il nome di Dio: fare delle cose in nome suo, cose negative, usare lui per fare quello che vogliamo noi.
Vedete dunque come nella parola fondamentale sul nome da non usare invano ci sta la proibizione della bestemmia, delle imprecazioni, dell’uso magico del nome di Dio.
Rientra però in questo precetto anche la proibizione del giuramento falso, perché il giuramento è invocare Dio come testimone; è fare qualche cosa in nome di Dio attribuendogli garanzia. Il giuramento falso, cioè giurare una cosa diversa dal vero, è un grave peccato contro il nome di Dio, è un abuso della sua persona, è costringerlo ad essere garante della falsità, è stravolgere la sua qualità di vero.
“Sì, sì; no, no”
Lo spergiuro, invece, è l’atteggiamento di chi non mantiene quello che ha giurato, di chi in partenza giura senza intenzione di mantenere la parola o, dopo avere promesso sotto giuramento, non si attiene a quello che ha detto. Anche in questo caso è una grave mancanza nei confronti del nome di Dio: qualcosa fatto in nome suo non viene valorizzato.
Ma anche la nostra vita cristiana, la nostra adesione a lui, ha la forma del giuramento, della adesione nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Siamo diventati cristiani con questa formula: il nome di Dio è stato invocato su di noi nel battesimo.
Iniziamo le giornate, ogni attività e preghiera “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”; quello che facciamo è tutto nel nome suo. Abbiamo fatto alleanza con lui; quel nome che noi portiamo, è portato invano? C’è una espressione nel profeta Geremia che leggiamo al Venerdì a compieta in cui si chiede al Signore che ci custodisca e protegga “perché il tuo nome è stato invocato sopra di noi, perché noi siamo portatori del tuo nome”. Come lo portiamo? Invano? Verso ciò che è vano, inconsistente, inutile, negativo o lo portiamo in modo positivo?
Gesù ha fatto riferimento a questo precetto del Decalogo quando, nel discorso della montagna, contesta il giuramento.
Mt 5,33Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti”; 34ma io vi dico: non giurate affatto:
Non tirate in ballo Dio, costringendolo a fare da giudice o garante per le vostre questioni.
37Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.
Proviamo a riflettere su quella espressione.
«Il vostro parlare sì, sì» può avere tre significati: le cose che sono “sì” tu dille come “sì”. Dì le cose come stanno; quello che dici corrisponda a quello che è. Se dici che è significa che è; se dici che non è significa che non è.
Ma vuole anche dire: quello che dici corrisponda a quello che pensi: ci sia una sincerità coerente tra il tuo parlare e il tuo pensare.
Oppure, ancora, potrebbe essere interpretato come una solennità di affermazione. Non c’è bisogno di giuramenti, di tirare in gioco Dio; quando dici una cosa è sufficiente: “sì, sì; no, no”, l’enfasi sul sì o sul no. Se sei una persona coerente la tua parola è sufficiente, cioè sincera con te stessa – dici quello che pensi – e vera rispetto alla realtà: dici quello che è, non deformi la realtà.
Il nome di Dio unifica la nostra persona; l’adesione totale a lui ci rende persone coerenti, vere e sincere che usano la parola nel modo corretto. Ma dobbiamo ribadire l’importanza positiva di questo comando; non è tanto sottolineato quel che non bisogna fare, ma – escludendo il negativo – viene valorizzata un enorme gamma di possibilità: benedite il nome di Dio.
Sal 8,2O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza.. 3Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza…
Proprio attraverso la condizione piccola dell’uomo tu esalti il tuo nome e dimostri quanto sei grande. Benedite il nome del Signore, lodatelo ed esaltatelo, ringraziatelo, parlatene bene, fatelo amare, non usatelo a sproposito per motivi futili, usatelo a proposito per motivi validi; non parlatene troppo, non parlatene a vanvera, non esagerate per non inflazionare il nome di Dio. Non rendetelo una banalità.
Pensate quante esclamazioni invocano il nome di Dio. Espressioni come “Oh Dio mio”. Ti sei versata la marmellata sul vestito: “Oh Dio mio che cosa ho fatto!”. Quante esclamazioni di tipo religioso banalizzano Dio e ne parlano come se fosse una questione di marmellata. Proprio perché noi siamo dell’ambiente religioso, dobbiamo stare attenti a non squalificare il nome di Dio, a non rovinargli il nome. Purtroppo è già stato fatto; molto discredito nei confronti di Dio è proprio venuto da coloro che ne parlano tanto; sono loro che hanno gettato il discredito su Dio. In fondo Dio è conoscibile attraverso i suoi amici e quindi diventa un esame di coscienza serio quello che dobbiamo farci, perché anche noi usiamo il nome di Dio forse invano, cioè lo vanifichiamo.
Il segno della croce
Diamo peso al segno della croce, è il segno cristiano per eccellenza che unisce il mistero della morte e risurrezione di Gesù e il mistero della Trinità. Sono i due misteri fondamentali della nostra fede e mentre con la mano riformuliamo il segno della croce, nominiamo le tre Persone divine toccandoci la testa, il cuore e le spalle come origine delle braccia, quindi l’intelligenza, l’affetto, l’attività, unificata nelle Persone divine attraverso il mistero della redenzione e tutto questo è nel nome di Dio.
La nostra persona è “nel nome”; Gesù ha rivelato il nome di Dio che è il nome del Padre, ha rivelato sé come Figlio, ha rivelato lo Spirito Santo, ci ha rivelato la vita intima di Dio.
Gesù è colui che ha santificato il nome di Dio e ci ha resi capaci di questa relazione autentica, ci conosce per nome, ci chiama per nome, valorizza il nostro nome.
Nel battesimo abbiamo ricevuto un nome, siamo stati inseriti nel nome della Trinità, ma in quel momento Dio ci ha chiamati per nome, è nata l’alleanza, la nostra relazione con lui e il nome del battesimo ha un valore sacramentale.
Una volta, entrando in religione, si cambiava nome per sottolineare proprio l’evento della alleanza religiosa, per attestare come una nuova nascita. Il Concilio, però, ha saggiamente motivato come sia meglio conservare anche nello stato di vita religiosa il nome del battesimo, perché la vita religiosa è una vita battesimale intensa, cosciente, coerente e quindi non cambia la persona, non diventa un’altra, ma è quella stessa del battesimo in piena consapevolezza.
Lodiamo il nome del Signore, chiamiamolo per nome, sapendo che egli ci chiama per nome e questa relazione di persone che si conoscono per nome diventi un modo per parlare bene del Signore, per trasmettere con ricchezza e con frutto la bellezza del conoscerlo e dell’essere suoi alleati.
III. “Ricordati di santificare le feste”
Il terzo comandamento, nella formulazione del Decalogo, è il più originale ed è anche quello presentato in due modi diversi nel testo dell’Esodo e nel testo del Deuteronomio.
Esodo 20 | Deuteronomio 5 |
8Ricordati del giorno di sabato per santificarlo:
9sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.
11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro. |
12Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato.
13Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, 14ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te.
15Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato.
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È l’unico caso, come avete potuto notare, in cui le due redazioni sono sensibilmente diverse. Anzitutto notiamo che non è un precetto negativo; è una formula apodittica positiva. Lo avevamo già detto all’inizio inquadrando tutto il Decalogo: solo due sono positivi e sono al centro. Il terzo, che chiude la serie dei precetti relativi a Dio, e il quarto che apre la serie dei precetti relativi al prossimo.
Sono proprio questi due precetti centrali la chiave di interpretazione di tutto il Decalogo, ma per poterne fare una sintesi abbiamo bisogno di analizzarli bene e quindi la sintesi la teniamo per una fase successiva.
Poniamo per adesso la nostra attenzione al testo come ci viene presentato nel Libro dell’Esodo.
Es 20,8Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: 9sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame,
Il testo del Deuteronomio aggiunge: “Né il tuo bue, né il tuo asino”,
né il forestiero che dimora presso di te.
Il Deuteronomio aggiunge:
Perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te”.
È importante avere tutto il quadro per comprendere bene che cosa indichi il precetto. A chi è dato questo comando? Ci sono tante indicazioni che permettono di capire a chi si sta rivolgendo il Signore dando questo precetto. A uno che ha figli, figlie, schiavi, bestiame, forestieri che abitano in casa sua; quindi è un precetto dato a un padre di famiglia ovvero al padrone di casa. È un precetto dato a chi comanda, è un precetto che coinvolge i responsabili di una casa, quelli che hanno dei dipendenti. Non farai alcun lavoro né tu né tutti quelli che dipendono da te, animali compresi, anche gli stranieri.
Se focalizziamo bene questo primo punto abbiamo l’interpretazione corretta del precetto biblico sull’osservanza del sabato. Ma guardiamo la formulazione iniziale.
Il precetto è formulato con un verbo all’imperativo, mentre gli altri, abbiamo detto, sono tutti futuri, in forma negativa, come conseguenza. Anche dove in italiano trovate l’infinto – che in genere è il nostro modo per fare l’imperativo negativo: non fare, non uccidere – sappiate che nell’originale non c’è un imperativo, ma un indicativo futuro. Quindi bisognerebbe cambiarli tutti: non ucciderai, non farai alcun lavoro, non nominerai ecc.
Sabato: il giorno del ricordo (secondo il Deuteronomio)
Solo i due comandamenti centrali sono formulati con un imperativo, quindi sono gli ordini veri e propri, sono i comandi che il Signore ha dato; sono quelli da evidenziare, sono il cuore del Decalogo. Qual è l’imperativo del terzo comandamento? “Ricordati!”. Splendido imperativo, è un comando estremamente generale. Non indica una cosa pratica da fare, è l’imperativo del ricordo: Ricordati! Fa’ memoria, ricordati del giorno di sabato. Ricordati che c’è un giorno che è shabát. L’ebraico ha adoperato questo termine perché è strettamente legato al verbo che vuol dire “cessare”, “smettere”, “interrompere”.
Il nome del settimo giorno, nel calendario ebraico, indica il giorno in cui si smette e dato che è possibile dimenticare che c’è il giorno della cessazione, l’imperativo dice: “Ricordati”. Ricordati del giorno di sabato per santificarlo.
Per poterlo santificare devi ricordartene, devi averne memoria, devi custodirne il senso.
Alla latina “ricordare” vuol dire “riportare al cuore”, re-cordare (corda: sono i cuori). Il nostro verbo italiano deriva da una espressione che mette il cuore al centro; ricordare vuol dire avere a cuore. Capite che cosa significa? Se io propongo: “Pregate per ciò che vi sta a cuore”, ognuno sa che cosa gli sta a cuore, cioè che cosa ricorda, che cosa è presente nella sua vita, nel suo interesse, nelle sue relazioni, nelle sue passioni. Che cosa vi interessa, che cosa è al centro? Ognuno pensa a qualcuno o a qualcosa.
Ricordare vuol dire tenere nel cuore, attaccare al cuore, avere al centro, mettere al centro della propria attenzione come il senso della propria vita. Ricordati chi sei, ricordati da dove vieni, ricordati che cosa hai ricevuto, ricordati del Signore che ti ha liberato dalla terra d’Egitto, dalla condizione di schiavo. Ricordatene, perché è facilissimo, quando si sta bene, dimenticare che si stava male. Una volta che si è ottenuto un beneficio è facile dimenticare chi ti ha dato quel beneficio. Quando si sta bene in salute è facile dimenticare che la salute è un dono, è una grazia e che non ce l’hai per merito acquisito.
Ricordati di quello che hai ricevuto, ricordati del Signore a cui hai aderito, ricordati dell’alleanza, ricordati del Signore con cui hai fatto alleanza e il sabato diventa il giorno del ricordo, è il memoriale. Ricordati per santificarlo.
Come si fa a santificare il sabato? Un po’ come si santifica il nome. Santo è il Signore, santo è ciò che appartiene al Signore; santificare vuol dire unire strettamente al Signore, fare in modo che sia suo. Ricordati del giorno di sabato per far sì che non sia tuo, bensì suo. Ricordati che non sei padrone, ricordati che il tempo non ti appartiene; il tempo che hai da vivere è un dono, ricordati che hai ricevuto un dono e santifica il giorno di sabato, cioè offrilo al Signore come suo, riconoscendo che tutto è suo.
Sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro, sei giorni sono tuoi, ma il settimo no; il settimo è shabat, è per il Signore tuo Dio, è suo e tu lo consacri a lui. Ricordatene, è una condizione fondamentale di alleanza. Per poter compiere questa offerta del tempo tu in quel giorno non farai il tuo lavoro, sospenderai la tua attività, ma – ecco il dato importante – farai riposare tutti quelli che dipendono da te: il figlio e la figlia, lo schiavo e la schiava. È molto interessante moltiplicare questo maschile e femminile per dire “senza distinzione”.
Qualcuno nota che non c’è la moglie. È importante anche questo, perché la moglie non è uno dei dipendenti, non è considerata un inferiore. Questo è un precetto dato al padrone di casa, ovvero alla padrona di casa, al padre di famiglia e alla madre di famiglia; può essere perfettamente dato al femminile. La donna che comanda la casa ha figli e figlie, schiavi e schiave; la moglie è equiparata al padrone di casa per cui non è elencata nei dipendenti. Sarebbe peggio se lo fosse. Imparate a leggere fra le righe e non cadete subito nei tranelli della mentalità moderna.
Dunque, il precetto riguarda la persona che ha autorità e il comando non sta tanto nel non lavorare, quanto piuttosto nel non far lavorare, nemmeno l’asino, nemmeno il bue.
Però se c’è un forestiero, uno straniero, lui può lavorare. No! Nemmeno il forestiero che abita in casa tua. Ma lui non ha fatto alleanza, quindi non ha diritti e non ha nemmeno doveri. Tu però devi essere una persona che libera. Questo è il precetto del sabato.
Ricordati che sei stato liberato, quindi sii una persona liberatrice, non semplicemente libera, ma liberante. Tu hai ricevuto un dono… ricordati di essere un dono; ricordati di far dono della tua vita. Non sei un padrone, hai ricevuto quello che hai, ricordati di distaccarti dalle cose del mondo.
Uno su sette è il giorno della memoria per insegnare il distacco, per insegnare la liberazione di tutti, indistintamente. Pensate che nella logica ebraica antica il forestiero viene messo dopo le bestie; c’è proprio una graduatoria discendente: i figli, gli schiavi, le bestie, i forestieri. I forestieri come ospiti, come extra-comunitari, a livello sociale valgono meno dell’asino e del bue; non appartengono alla famiglia, sono solo di passaggio, quindi sono naturalmente sfruttabili. Il precetto antico elenca anche loro: anche la persona che puoi valutare meno di una bestia tu considerala persona da liberare, soggetto di diritto. Sii un liberatore, ricordati di essere un liberatore.
Il Deuteronomio inizia la formulazione del terzo precetto con il verbo “osservare”. «Osserva il giorno di sabato per santificarlo», ma il verbo “osservare” è lo stesso verbo di “conservare”. Se in italiano c’è un po’ di differenza l’originale ebraico può essere tradotto ugualmente in questi modi. “Conservare” è il verbo tipico della relazione di alleanza: custodire l’alleanza, conservare l’amicizia, osservare la legge: è la stessa cosa. “Osserva il giorno” significa conserva, difendi quel giorno di sabato in modo tale che tu lo possa santificare, cioè dare al Signore.
Viene poi presentata la motivazione, la causa. Il Deuteronomio, dicono gli studiosi, conserva una formulazione più arcaica e difatti è a questo punto che compare il verbo “ricordare”.
Dt 5,15Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato.
Vedete che il riferimento alla liberazione dalla schiavitù d’Egitto, che è all’inizio del Decalogo, si ritrova anche qui al centro: ricordati di questo. Ricordati che sei stato salvato.
Il cuore della tua vita di fede è la memoria di una salvezza già realizzata, non da te, ma dal Signore per te. Tu hai ricevuto in dono la libertà e la salvezza, ricordatene: sii perciò anche tu un liberatore.
Sabato: il giorno del riposo (secondo l’Esodo)
La redazione del libro dell’Esodo sembra posteriore, più evoluta, più tardiva teologicamente; ha ripreso il ricordo della schiavitù e della liberazione mettendolo all’inizio e introducendo a questo punto un’altra motivazione.
Es 20,11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.
Chiaramente questa motivazione dipende dal testo di Gn 1 che è il grande inno sacerdotale al sabato, ma quel testo è legato al periodo dell’esilio, è il frutto della teologia sacerdotale durante l’esilio in Babilonia, quando il sabato è stato rivalutato come un simbolo di Israele. Non avendo più terra hai il tempo (dal tempio al tempo) e il segno della presenza di Dio nella tua storia non è tanto legato alla terra, quanto piuttosto al tempo e il sabato diventa il tempo di Dio, diventa il tempio della presenza di Dio nella tua vita.
Il riferimento alla creazione serve per universalizzare; il modello della creazione in sei giorni spiega il senso del calendario e lo stile in cui vivere il tempo. Il Signore stesso si è riposato, ha cessato il lavoro ed egli è il modello di quello che devi fare tu.
La tradizione di Israele, dunque, ha presentato il giorno di sabato come il giorno sacro che appartiene al Signore, memoriale della liberazione. Segno dell’alleanza perenne, il sabato è “per il Signore” e diventa un giorno di protesta contro la schiavitù del lavoro, un giorno di protesta contro il culto del guadagno, del denaro. Il sabato è un segno di liberazione. Il popolo ebraico, in esilio, ha radicalizzato la sacralità del sabato anche per una netta distinzione rispetto agli altri popoli, per una unità nazionale che – assieme alla pratica della circoncisione e della purità dei cibi – potesse essere una caratteristica di identità religiosa e di legame sociale
Una interpretazione integralista
La tradizione ebraica ha interpretato i primi tre precetti in modo integralista, con una applicazione estremamente rigida. Ha proibito in modo assoluto le immagini; ha proibito in modo assoluto di pronunciare il nome di Dio: il tetragramma sacro – che esprime il nome proprio del Signore – non deve essere pronunciato mai; il sabato deve essere osservato in modo rigoroso, senza fare nessun lavoro.
Le normative di tutta la giurisprudenza giudaica erano in gran parte applicate proprio a questi precetti: evitare le immagini, evitare il nome, evitare il lavoro di sabato.
Il precetto più difficile da osservare era senza dubbio quello di evitare assolutamente il lavoro di sabato e allora ben si comprende come si sia moltiplicata la regolamentazione: quanti passi si possono fare, quanti cibi si possono cuocere o mangiare.
In Israele, ancora oggi, ho assistito a scene di questo genere: in un hotel israeliano ho visto l’ascensore del sabato. Si chiama proprio “shabat elevator”: è un ascensore senza tasti perché pestare, schiacciare, è un lavoro proibito e quindi è una specie di autobus che fa tutte le fermate. Tu ti metti davanti alla porta dell’ascensore e aspetti che si apra. Sali e aspetti che si apra al piano dove devi andare; non ci sono comandi. Quello è l’ascensore che si può prendere al sabato. Vuol dire che ci sono delle fabbriche che hanno costruito degli ascensori di questo tipo, con un modello speciale e questo per osservare la legge di Dio.
Come è evidente, noi cristiani abbiamo una lettura molto più aperta: le immagini le abbiamo ampiamente moltiplicate, il nome di Dio lo nominiamo abbondantemente senza nessun problema, il sabato l’abbiamo anche sostituito con la domenica e soprattutto abbiamo superato quella mentalità legalista, integralista, di osservanza nei particolari.
La libertà portata da Cristo
A che cosa è dovuto questo nostro atteggiamento più libero? All’interpretazione di Gesù.
Abbiamo detto che è l’incarnazione che giustifica le immagini, quindi è Gesù che, con la sua persona divino-umana, rende possibile la rappresentazione di Dio. Il nome di Dio è il Padre di Gesù, è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo ed è stato dato a noi, noi siamo stati immersi in quel nome, quindi ne facciamo parte, diventa la nostra vita.
Gesù è stato molte volte rimproverato di violare il sabato; gli episodi sono molto noti, quindi non sto a dilungarmi. In realtà, però, Gesù non violava il sabato, ma ne dava la corretta interpretazione e la formula rivoluzionaria nell’insegnamento di Gesù è: «il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato». Rivoluzionario perché nella tradizione ebraica il sabato è per il Signore. Gesù invece dice che il sabato è per l’uomo; non viola il sabato, lo interpreta, corregge una mentalità scorretta; non corregge il Decalogo, lo interpreta correttamente.
L’osservanza del sabato non serve a Dio, serve all’uomo. Dio ha dato il precetto del sabato non perché ha bisogno di un giorno, ma perché l’uomo ne ha bisogno.
Il fine del precetto è la liberazione dell’uomo; santificare il sabato serve all’uomo, è per il bene dell’uomo; l’uomo non è usato per la legge, l’uomo non è finalizzato a fare un piacere a Dio; Dio offre la libertà all’uomo e il precetto che gli dà è quello per rendere l’uomo veramente libero. Quindi, la prospettiva di Gesù libera il sabato dalle cattive interpretazioni legaliste e lo riporta alla santità della prima origine.
Il sabato è il giorno della salvezza, è il giorno in cui l’uomo viene guarito, in cui l’uomo viene liberato: quello è il sabato. Voi sciogliete un animale in giorno di sabato e questa donna che satana teneva da tanti anni legata, non doveva essere liberata in giorno di sabato? Ma questo è il sabato! Liberare l’umanità dalle catene in cui è finita.
Il Figlio dell’uomo è Signore del sabato perché libera veramente l’uomo, dunque la tradizione cristiana ha sostituito il sabato con la domenica e ha cambiato la formulazione. Non c’è ricordati del giorno di sabato per santificarlo, ma: ricordati di santificare le feste.
Domenica, il primo giorno della settimana
“Le feste” cioè la domenica e le feste: i giorni che celebrano il mistero di Cristo, della redenzione.
La domenica è il giorno della risurrezione, è il girono primo e ultimo, è il giorno ottavo; non esiste il giorno ottavo: se lo schema è a base sette, arrivati a sette si ricomincia da uno. L’ottavo giorno è l’eternità, è il giorno eterno, è la domenica senza tramonto: l’otto diventa il simbolo dell’infinito e infatti anche in matematica l’8 coricato, messo in orizzontale, “∞” indica l’infinito. I battisteri, fin dall’antichità, erano a base ottagonale per indicare l’eterno, l’ingresso nella vita eterna.
La domenica è il primo giorno della settimana, è il giorno della creazione, l’inizio della creazione in cui Dio separò la luce dalle tenebre ed è l’ottavo giorno, il giorno della risurrezione, della vita, della nuova esistenza, è il giorno del Signore, “dies dominica”.
Questa è una rivoluzione; avere come giorno di festa il primo, anziché il settimo, è rivoluzionario, ma è una rivoluzione che abbiamo dimenticato. La domenica si distingue nettamente dal sabato; non è semplicemente uno spostamento, uno vale l’altro. No!
Il sabato è l’ultimo giorno della settimana, il sabato chiude; la domenica è il primo. È chiaro che in una serie ciclica vengono sempre uno dopo l’altro, ma la differenza è quella che passa tra l’ultimo e il primo. Il 31 dicembre non è come il primo gennaio, anche se sono due giorni contigui; ma uno è l’ultimo, l’altro è il primo.
Se ci pensate, però, nella nostra mentalità l’idea che la domenica sia il primo giorno della settimana non c’è. Tanto è vero che tutte le nostre agende cominciano con il lunedì e anche i nostri stessi testi di calendari fatti in ambiente cristiano – le agende delle Paoline ad esempio – cominciano con il lunedì. Chiunque direbbe che la settimana inizia con il lunedì.
Questa è una perdita molto grave, perché la domenica è il primo giorno della settimana. Pensate al breviario: la settimana inizia sempre con la domenica, è la domenica che dà la chiave di lettura per i giorni seguenti e non è assolutamente la stessa cosa.
Qui il precetto divino riguarda la festa: Dio comanda la festa, è un ordine divino per l’uomo fare festa. Nella prospettiva dell’Antico Testamento la festa però è alla fine; lavora sei giorni poi ne farai uno di festa come conclusione: al sabato ti riposerai.
Noi invece abbiamo una mentalità festiva perché cominciamo la settimana con la festa; prima facciamo festa, poi lavoriamo. Questa è la mentalità cristiana: prima la festa perché è il giorno in cui il Signore ha agito, ha liberato, ha salvato, ha redento, ha donato la vita. Quello è il giorno di festa iniziale, è il giorno dell’assemblea, il giorno della Eucaristia, il giorno dell’ascolto della Parola. In quel giorno iniziale noi riceviamo il dono di Dio, la libertà con cui possiamo vivere di conseguenza per una settimana. Prima ci alimentiamo, e ci riposiamo, accogliamo la grazia della salvezza, poi, di conseguenza, lavoriamo. Il dono di Dio precede sempre la legge. Vivere secondo la domenica è una espressione di s.Ignazio di Antiochia, antichissimo padre della chiesa ed è una espressione fondamentale.
“Vivere secondo la domenica” è una mentalità che abbiamo perso e che dobbiamo recuperare. Pensate quante volte, nella nostra prassi pastorale, lavoriamo per prepararci alla festa, perché la festa viene alla fine. Anche quando si fa meditazione sulle letture della messa è facilissimo fare meditazione sulle letture della domenica seguente. Sbagliato!
Fate meditazione sulle letture della domenica, ma sulla domenica che avete alle spalle; meditate tutta la settimana la parola di Dio che vi è stata data la domenica. Non dovete prepararvi a niente, dovete vivere di rendita, dovete vivere di grazia, dovete vivere secondo la domenica; la festa è all’inizio, è ciò che ha fatto il Signore; noi viviamo della sua libertà.
È una mentalità da capovolgere. Rischiamo in questo modo di sabbatizzare, cioè di vivere secondo un vecchio schema giudaico, mentre la liberazione cristiana – la novità di Gesù Cristo – è proprio il dono che precede la vita.
Si tratterà allora di rileggere concretamente la santificazione delle feste.
La partecipazione alla Eucaristia è obbligatoria in giorno di festa per questo motivo: ricordati che hai ricevuto un dono e la partecipazione alla Eucaristia è rinnovamento dell’alleanza, è accettazione e ringraziamento del dono, è il riconoscimento che hai bisogno di essere salvato e che quel dono ti rende capace di fare della tua vita un dono per i prossimi sei giorni. È un giorno di liberazione, è un giorno di distacco, di differenza dagli altri.
Provate a pensare come vivete la domenica, come la santificate. La nostra cultura purtroppo l’ha persa ed è un grave danno. Ha detto qualcuno che la difesa della domenica è il punto determinante della fede cristiana; persa la domenica avremo perso la fede cristiana come impatto sociale e… l’abbiamo quasi persa.
La Turchia, che è paese islamico nella grandissima maggioranza, fa festa la domenica, perché le interessa il contatto con l’Europa e quindi è festivo il giorno di domenica, ma non vuol dire nulla. Quindi il fatto di far festa alla domenica non vuol dire niente in Turchia come in Italia. È semplicemente una abitudine, perché abbiamo perso il valore della domenica come giorno del Signore, del Signore risorto e della comunità.
Nella mentalità corrente, anche nostra, la domenica non è il giorno del Signore, ma è il giorno libero in cui io faccio quello che voglio io, è il giorno mio in cui mi riprendo il tempo e faccio le cose che non ho potuto fare lungo la settimana; è il contrario. Non è la liberazione, ma è la cattura del tempo, quel tempo diventa il mio.
Provate a riflettere su che cosa intendete per “fare festa”; come si fa festa; che cosa è una festa, quando fate festa, che cosa ha un giorno di festa diverso dall’altro, perché è festa, che cosa vuol dire santificare la domenica? Concretamente come potete santificarla? Ricordatene! È un ricordo fondamentale, perché sul modo con cui viviamo la festa ci giochiamo l’alleanza.
IV. “Onora tuo padre e tua madre”
Anche il quarto comandamento è formulato in positivo, ma vediamo che tra di due testi antichi c’è una differenza: il testo del Deuteronomio aggiunge alcuni particolari: c’è una sottolineatura di un comando secondo la volontà di Dio e un invito godere della felicità donata da Dio.
Esodo 20 | Deuteronomio 5 |
20, 12 Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio.
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5,16Onora tuo padre e tua madre, come il Signore Dio tuo ti ha comandato, perché la tua vita sia lunga e tu sii felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà.
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Una novità rispetto a tutti gli altri precetti trovati finora è costituita dalla finalità. Il terzo comandamento era accompagnato dalla causa: ricordati del sabato per santificarlo perché il Signore ti ha liberato, perché il Signore ha creato il mondo; la causa determina il comando. Qui invece viene specificato il fine: onora tuo padre e tua madre affinché la tua vita sia lunga e tu sia felice nel paese che il Signore ti dona.
Anche questa somiglianza è importante: i due comandi centrali non solo sono in positivo, ma contengono un riferimento alla causa e al fine del precetto.
Il comando del sabato chiude la serie dei precetti relativi al Signore; il comando sui genitori apre la serie dei precetti sulle relazioni umane. Il sabato e i genitori sono il cuore del Decalogo, la festa e la famiglia sono il centro della alleanza.
Se il precetto del sabato – abbiamo detto – è rivolto al Padre, il quarto comandamento è rivolto al figlio. Idealmente noi possiamo considerare un uomo di mezza età che abbia sia un figlio giovane, sia un padre anziano e quindi i due precetti gli sono rivolti nelle due relazioni: verso il figlio giovane che rappresenta il futuro, verso il padre anziano che rappresenta il passato. Vedete allora come al centro del Decalogo ci sia il legame con il tempo passato e quello futuro, perché ogni esperienza presente viene da un passato e tende a un futuro. Nei confronti del figlio il padre è invitato ad essere un liberatore, non un oppressore, non un padrone che sfrutta, che fa lavorare, ma un datore di libertà che fa fare festa. È l’immagine della autorità umana che trasmette alle nuove generazioni uno stile divino, di dono, di libertà.
Dall’altra parte il precetto sui genitori ricorda la necessità di valorizzare quello che è stato fatto prima e le persone che concretamente hanno dato la vita e trasmesso l’alleanza.
“Onora”
Soffermiamoci a meditare sul verbo che è utilizzato come comando: “onora”. È un verbo particolare, non è semplicemente il rispetto o l’amore, è un verbo particolare molto importante nella tradizione biblica. Per aiutare la comprensione sarebbe ancora meglio tradurre “glorifica”, perché nella lingua ebraica viene adoperato il verbo della gloria, però nel nostro linguaggio suonerebbe strano. Molte volte si parla della gloria di Dio per indicare la sua presenza in mezzo al popolo. La nube divina invade la tenda e la tenda dell’alleanza, il tabernacolo, è il luogo dove abita la gloria. La gloria è la presenza di Dio, una presenza potente e operante: c’è, può agire, di fatto agisce.
Nel linguaggio ebraico il termine “gloria” è strettamente legato al concetto di “peso”. Glorioso equivale a pesante. Ora, nel nostro linguaggio, dire che una persona è pesante non è un complimento. Però, se ragioniamo, usiamo quell’aggettivo per indicare una presenza che riteniamo eccessiva. Si dice che una persona è pesante se è troppo presente, invadente, opprimente, se è sempre lì. L’idea allora è quella di esserci, di essere sopra, di essere addosso, quasi di schiacciare. Noi abbiamo sviluppato una metafora negativa del peso, mentre nella tradizione ebraica la stessa metafora ha una valenza positiva; si dice di Dio che è pesante, perché è sempre lì, è sempre addosso; è presente in modo potente e in modo operante. Questa sua presenza è la gloria, è il peso di Dio.
Pensate ad un altro ambito dove adoperiamo l’immagine del peso, quello del ruolo sociale. Una persona che ha un “peso” nella società significa che è influente, che determina in un consiglio il giudizio di qualcuno. È pesante nel senso che dopo che ha formulato la sua opinione ha dato un’impronta: ha un peso, ha voce in capitolo. Questo è il peso di Dio, questa è la gloria di Dio.
Allora, che cosa significa onora tuo padre e tua madre? Potremmo tradurre non con “glorifica” – perché avrebbe bisogno di essere spiegato ulteriormente – ma per ricuperare l’immagine originaria potremmo rendere con “dà peso” a tuo padre e a tua madre: dà peso, dà importanza, valorizza, riconosci il valore della tradizione.
È importante la sottolineatura dei due aggettivi possessivi: onora tuo padre e tua madre. Qui vengono presentati entrambi, l’uomo e la donna, il padre e la madre, proprio per sottolineare il doppio aspetto – paternità e maternità – legato alla tradizione della vita e della fede. Il quarto comandamento è legato al modo di trasmettere la fede, alla tradizione; è il comando della storia della salvezza. Ricordati che non ti sei fatto da solo, ricordati da dove vieni, ricorda che l’alleanza che tu stai vivendo non è una tua invenzione, ma è una eredità; quello che hai lo hai ricevuto, valorizza quello che hai ricevuto, dà peso alla tradizione che ti ha preceduto.
Il terzo e il quarto comandamento, i due positivi, sono molto simili tra di loro, perché in entrambi i casi si sottolinea quello che hai ricevuto e quello che sei chiamato a dare.
Lo stile dell’alleanza è riconoscere di appartenere a una famiglia che viene dal passato e tende al futuro, ma non in modo astratto, bensì in modo concreto, legato a delle persone concrete che sono i tuoi padri e i tuoi figli, quelli vissuti prima di te e quelli che vivranno dopo di te. Tu sei in una situazione di passaggio: hai ricevuto e trasmetti.
Questo legame con ciò che ti precede e ciò che ti segue è fondamentale nello stile dell’alleanza. Ricordati che hai ricevuto un dono, quindi valorizzalo e trasmettilo. Quello che hai ricevuto deve essere valorizzato proprio perché la tua vita sia lunga e tu possa essere felice nella terra che il Signore ti regala.
Il fine per cui il Signore ha dato il Decalogo è espresso qui, al centro. Perché ce lo ha dato? Non perché vuole tenerci sottomessi, ma perché vuole fare di noi una famiglia libera, perché vuole la vita e la vita lunga, nel senso di una vita piena, realizzata: vuole la felicità, il bene.
Ti dico questa parola perché voglio il tuo bene, ti do questa legge per il tuo bene, perché tu stia bene, perché ti voglio bene, perché voglio la tua felicità e ti indico questa strada proprio perché tu possa essere felice nella terra che io ti regalo: è la terra promessa. Non dimentichiamo che il Decalogo viene dato a un popolo nel deserto, che non è ancora nella terra; è una alleanza fatta in vista di entrare nella terra promessa, quindi nella prospettiva di realizzare pienamente la vita. La terra promessa è l’eternità, è la gloria del paradiso; per arrivare alla terra promessa questa è la strada; questo è l’obiettivo della felicità.
Dunque, il quarto comandamento ci parla soprattutto di una valorizzazione della tradizione. Il Signore chiede a ciascuno di dar peso alla rivelazione che lo ha preceduto, a quella parola e a quella storia che hanno formato la nostra vita di adesso.
È chiaro che, inserendosi in un discorso di famiglia, questo precetto si allarga anche a tutti gli altri membri della famiglia. Vengono nominati semplicemente il padre e la madre per creare quel rapporto vitale dove evidente è il dono della vita: onora il dono della vita, onora chi ti ha fatto vivere. Il discorso non è però semplicemente fisico e allora dietro al padre e alla madre che ti hanno dato la vita fisica ci stanno tutti coloro che contribuiscono alla tua vita. Dietro al padre e alla madre sono compresi tutti coloro che aiutano la tua esistenza, nutrono la tua vita soprattutto in senso spirituale e quindi è un precetto che riguarda l’autorità.
Il senso dell’autorità paterna
Che cosa significa autorità? È una parola importante e bella con due possibili aggettivi, perché dal concetto di autorità deriva la qualifica di autoritario, ma anche quella di autorevole. Molto diverse le sfumature; nella lingua italiana è possibile e anche in altre lingue si può ripetere; è un gioco linguistico importante.
Che cosa significa autorità? È una parola che viene dal latino e deriva dal verbo augére che vuol dire far crescere. Àuctor è colui che fa crescere, tecnicamente si dice che è un nome di azione, è colui che fa l’azione del crescere, non colui che cresce, ma chi causa la crescita. Quindi auctoritas è – nel nostro linguaggio teologico – la qualità di chi fa crescere una persona.
Il padre e la madre sono autorità naturali, proprio nel vero senso della parola, sono autori perché fanno crescer la vita: dalla cellula iniziale al bambino appena nato, alla persona adulta in grado di vivere con le proprie forze.
C’è un cammino di accompagnamento perché dare la vita non è semplicemente mettere al mondo, ma insegnare a stare al mondo e quindi il compito del genitore è quello di dare la vita fisica e di dare la vita morale, umana, spirituale. Non è tanto determinante l’elemento biologico iniziale, quanto l’accompagnamento pedagogico.
San Giuseppe nei confronti di Gesù – anche se biologicamente non c’entra – è padre, ed ha avuto un ruolo importante di accompagnatore, di educatore, di modello, di formatore, perché il bambino è cresciuto imparando a parlare, a ragionare, a pregare, perché aiutato da quell’uomo giusto di nome Giuseppe. Gli ha insegnato il mestiere, gli ha insegnato a vivere, gli ha insegnato a pregare, lo ha portato nel tempio e gli ha consegnato la legge, gli ha detto: sei grande, adesso devi osservare la parola di Dio: lo ha formato.
Il Figlio di Dio, l’Onnipotente, sapiente, creatore di tutto, ha accettato di essere figlio del falegname; non per finta, ma sul serio: vero uomo in tutto, anche in questo, nel crescere, nell’imparare. Ha imparato a pregare in famiglia e in questa struttura sociale è il padre che insegna; le preghiere le dice il padre e quindi Giuseppe ha avuto un ruolo importantissimo nella formazione del bambino, del ragazzo, del giovane, di quell’uomo. Questa è la paternità. Gesù si è inserito perfettamente nella storia dell’umanità ricevendo una formazione umana da suo padre Giuseppe.
La paternità di san Giuseppe è una autorità: ha fatto crescere e questo tipo di autorità vale allora per molte altre relazioni. I genitori hanno una autorità, ma anche i maestri, i formatori, gli educatori e tutti coloro che in ogni ambito hanno un ruolo di superiorità dove la superiorità è servizio, dove l’autorità è servizio per la crescita altrui.
Autorità e/o autorevolezza
Torniamo allora ai due aggettivi. Che differenza c’è tra una persona autoritaria e una persona autorevole?
Tutti e due esercitano una autorità, ma con delle differenze importanti, perché colui che viene definito autoritario è prepotente, esercita una forza che domina l’altro e il suo è un atteggiamento schiavizzante: “È così perché lo dico io e basta. Tu devi tacere e obbedire”. Questo è un atteggiamento autoritario che non libera, che non fa crescere. È un atteggiamento negativo, è indizio di debolezza e molte volte la prepotenza sta con la debolezza: non avendo la capacità di dialogo e di confronto ci si irrigidisce e si impone.
Questo rovina i rapporti, non fa crescere le persone, mentre l’atteggiamento autorevole è quello di chi ha la capacità di comunicare in modo tale che la persona riceva e cresca: comunica una parola che ha valore, che viene accolta come valida, pesante, significativa.
Gesù è una persona autorevole, si presenta a insegnare in un modo che lascia a bocca aperta; non come gli scribi che ripetono sempre le stesse cose dette dagli altri, oppure sono autoritari e obbligano in modo assoluto. Questo è un maestro autorevole perché libera, fa capire, fa crescere, fa maturare, fa diventare veramente uomini, cioè comunica la vita. Gesù è autorevole perché comunica la vita.
Allora riconosciamo che il precetto “onora tuo padre e tua madre” vale più per il padre che non per il figlio. Dà peso a tuo padre, ma implicitamente al padre viene detto: sii un uomo di peso, di valore, perché tuo figlio possa ricevere da te la vita.
Sia il terzo sia il quarto comandamento hanno due facce: dare e ricevere nella dimensione della famiglia ed è proprio la famiglia la cellula originale della vita sociale, l’ambiente sperimentabile da ciascuno come luogo della relazione sociale, del ricevere e del dare, del vivere una vita matura. Il quarto comandamento illumina tutte le relazioni nella società.
Possiamo allora chiarire facilmente quel che comporta il precetto divino, perché la paternità umana è modellata sulla paternità divina. Ci è chiesta allora quella che si chiama “pietà filiale”, cioè quella relazione da figli; è l’atteggiamento fondamentale del cristiano che diventa figlio nel Figlio, che onora il Padre e lo onora vivendo da figlio.
La pietà filiale richiede riconoscenza, docilità, obbedienza, ma – al di là delle applicazioni concrete nella vita di famiglia – c’è un discorso molto più ampio di stile: è riconoscenza, docilità, obbedienza alla autorità che viene da Dio, a tutte le persone che ci fanno crescere. È l’atteggiamento di chi sa ricevere.
Mentre nel terzo comandamento si sottolineava l’importanza del dare libertà, adesso si sottolinea l’importanza del ricevere: è importante accogliere la vita, lasciarsi formare. La docilità è l’atteggiamento di chi impara, di chi si lascia formare e quindi il Signore ci chiede di onorare tutti coloro che per il nostro bene hanno ricevuto una autorità, di dar peso – quindi di accogliere – ciò che ci fa crescere.
È importante riconoscere come Gesù abbia voluto valorizzare questo precetto proprio in una contesa con gli scribi. Troviamo un testo importante nel vangelo secondo Marco al capitolo 7.
Mc 7,9 “Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. 10Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e…
Citazione di altro testo preso dal codice dell’alleanza…
chi maledice il padre e la madre sia messo a morte.
Onorare il padre e la madre fa vivere; maledire il padre o la madre produce la morte. Questo è stato detto!
11 Voi invece dicendo: Se uno dichiara al padre o alla madre: è Korbàn, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, 12non gli permettete più di fare nulla per il padre e la madre, 13annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte”.
Qui Gesù fa riferimento a una regola giuridica per cui se uno offre al tempio quello che dovrebbe spendere per mantenere i genitori non è più tenuto a mantenere i genitori, perché è un’offerta sacra. È più importante il tempio, il luogo sacro è… la casa di Dio. Ragionavano così. Gesù dice: ve la siete inventata voi questa religione del sacro, dove preferite addobbare il tempio piuttosto che assistere i genitori. Questa è solo una invenzione vostra. Voi annullate il comandamento di Dio per difendere le vostre invenzioni religiose e ne fate tante di cose del genere.
Noi non ci soffermiamo su questo discorso, ne vogliamo però cogliere il senso, perché è possibile che il comandamento di Dio sull’onorare l’autorità venga eluso da tante altre invenzioni nostre. Sono invenzioni religiose schematizzate, catalogate, messe per iscritto, ma sono invenzioni nostre e se vanno contro il principio fondamentale decadono.
L’autorità ha un valore quando assomiglia alla capacità di Dio di far crescere, ma se l’autorità non fa crescere, ma si autodifende, non ha più significato. Non si difende l’autorità se è esclusivamente finalizzata alla conservazione di una struttura religiosa, l’autorevolezza non si difende in modo autoritario, perché la fede non è comunicata e la famiglia non vive, non cresce, non è contenta.
Importanza, ma non assoluta, della famiglia
Un’altra osservazione importante: anche se la famiglia è grandemente valorizzata, non viene ritenuta un assoluto. Gesù, che difende il comandamento di Dio di onorare il padre e la madre, chiede che i suoi discepoli vogliano più bene a lui che al padre e alla madre. Perché lui è più autorevole di loro, perché comunica la vita di più. Tutto questo lo esprime Gesù in modo inequivocabile nel vangelo secondo Matteo:
Mt 12,46Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. 47Qualcuno gli disse: “Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti”. 48Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. 49 Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; 50 perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”.
Gesù chiede un distacco, un superamento, non un disonorare, ma un superamento del legame. Anche se la famiglia è cosa buona e voluta da Dio, nella prospettiva del regno si chiede a qualcuno di non fare famiglia, di superare questo schema e di comunicare la vita in altro modo, senza mettere al mondo dei figli.
È la prospettiva originale e rivoluzionaria del vangelo che valorizza quello che c’è, ma supera una dimensione semplicemente umana. Il Cristo ha portato quella dinamica nuova, quella grazia che trasforma le relazioni e rende possibile veramente nuove relazioni.
Tutto il Decalogo non possiamo ridurlo a una serie di precetti pratici, ma lo consideriamo come annunciatore delle linee fondamentali dello stile di Dio e per conoscere veramente Dio è indispensabile passare attraverso Gesù Cristo, il Figlio, il liberatore dei suoi fratelli che ha onorato il Padre in modo totale. È lui che ha realizzato veramente la legge e, donando a noi la sua vita, ci rende capaci di questo grande equilibrio: di ricevere e di dare, di ricordare e onorare. In questo, andando a fondo e sviscerando i particolari, troviamo tutto il senso del Decalogo: è il cuore della legge, è la grazia dello Spirito.
V. “Non uccidere”
Il Signore vuole la vita e la felicità del suo popolo; questo è stato detto espressamente nel IV comandamento, quello che segna il passaggio dai precetti relativi al Signore ai comandi relativi alle persone umane e il passaggio è stato determinato dal riferimento al padre e alla madre, come le autorità umane che più rappresentano Dio, come mediatori della vita.
Iniziano gli imperativi apodittici
Subito dopo inizia la serie degli ultimi precetti in forma estremamente breve. La nostra formulazione catechistica li ha resi tutti brevi, mentre il testo biblico – come abbiamo potuto osservare – nei primi quattro è molto ampio, con aggiunte, commenti, sottolineature. A partire dal quinto, invece, ci troviamo di fronte a degli imperativi apodittici, anche se dobbiamo ripetere per l’ennesima volta che non si tratta propriamente di imperativi, ma di indicativi futuri.
Così il quinto comandamento semplicemente recita: “Non ucciderai”, senza alcun commento né alcuna precisazione. È una forma universale, generale e assoluta. È una forma negativa che serve però per valorizzare l’aspetto positivo della vita.
Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla schiavitù, perciò non ucciderai. Dovremmo ripetere ad ogni comandamento la formula introduttiva, perché il precetto è la conseguenza della relazione. Ogni volta dovremmo quindi ripetere quel discorso che abbiamo posto all’inizio: “Io sono”.
Io sono il Signore tuo Dio che ho fatto per te l’evento della libertà… perciò non ucciderai. Io sono il Dio della vita, io sono il Signore che fa vivere e tu, mio alleato, naturalmente sarai difensore della vita e non ucciderai. Se sei mio alleato devi essere come me, non puoi fare alleanza con me avendo una mentalità diversa e operando con stile diverso rispetto al mio.
È molto importante ricordare che il Decalogo è la formula dell’alleanza; non possiamo infatti farlo diventare un trattato di catechismo a sé; non possiamo dimenticare che è un dialogo tra un “io” e un “tu” in un clima di affetto e di relazione. Dopo che il popolo ha detto: “Tutto quello che il Signore dice, noi lo faremo”, dopo che c’è questo vincolo, si accoglie una parola che non taglia la strada, ma la apre.
Ho già detto, ma può essere opportuno ripeterlo, che la forma negativa spesso è più ampia e liberante della forma positiva. Faccio un esempio. Se io ti dico: “Prendi questa strada” te ne indico una sola e quindi ti proibisco di prendere tutte le altre. Anche se il comando è positivo, ti limita, ti dice di prendere solo quella strada, ti costringe a fare una cosa sola, senza possibilità di scelta. Se invece io ti dico: “Non prendere quella strada” te ne tolgo una, ma ti lascio tutte le altre. Quindi il precetto negativo è liberante; io ti indico la strada sbagliata, la strada senza uscita, quella che ti rovina; ebbene, quella non la prendere, ci sono le altre e hai una tua libertà. Il Decalogo difende la libertà dell’uomo, vuole la vita e la felicità dell’uomo.
Questo quinto comandamento esprime così il grande rispetto per la vita umana, per la vita in genere e tuttavia dobbiamo riconoscere che nella formulazione originale si adopera un verbo particolare che indica propriamente l’uccisione violenta di una persona innocente.
Dobbiamo quindi inserire questo precetto in un contesto legislativo dove era prevista anche la pena di morte. Nei tesi seguenti – oltre il Decalogo – molte volte viene detto che ci sono dei colpevoli che devono essere eliminati fisicamente. Così, nel clima dell’Antico Testamento, è spesso prevista la guerra, una guerra che comporta anche la distruzione totale dei nemici, quello che è chiamato lo sterminio (chérem).
Il precetto, nel suo senso primitivo, limita quindi la violenza privata: non aggredire una persona innocente. È il precetto contro il bandito, contro il delinquente che aggredisce un passante o si fa vendetta per conto proprio o, preso dall’ira, uccide l’altro.
Se questo era il senso più antico, la maturazione della fede del popolo eletto – fino alla pienezza di Cristo e al dono totale della rivelazione – ha compreso che questo precetto è molto più ampio. Riguarda quindi il valore della vita e la necessità di dare la vita e non la morte, senza tuttavia arrivare a degli eccessi integralisti.
Integralismo e libertà
È strano notare come, nella prima parte del Decalogo, gli ebrei hanno dato una interpretazione integralista, mentre noi cristiani abbiamo lasciato molte più aperture.
— Divieto assoluto delle immagini, assolutamente mai immagine, dicono gli ebrei per obbedire al comando. Noi invece le immagini tranquillamente le facciamo e le moltiplichiamo ritenendo che sia possibile.
— Non nominare il nome di Dio invano, assolutamente mai nominarlo; noi invece riteniamo che ci siano molti casi in cui si possa nominare e sia bene nominarlo.
— Osserva il sabato, rigorosamente non si deve fare quasi nulla per osservare il sabato; noi invece in modo molto più ampio abbiamo detto che il sabato è per l’uomo e quindi deve essere interpretato.
L’effetto contrario lo abbiamo con i precetti seguenti. Mentre nella prospettiva ebraica c’è più apertura, noi siamo integralisti in questo ambito e sul non uccidere, ad esempio, facciamo un ragionamento integralista di tipo giudaico come per il sabato o per il nome di Dio: assolutamente mai. Perché? Perché c’è scritto: “Non uccidere”.
Questo criterio non lo utilizziamo per gli altri comandamenti e difatti nella prospettiva della fede matura dobbiamo ritenere che la vita sia molto importante, che debba essere difesa, ma non è un valore assoluto, tanto è vero che celebriamo i martiri dicendo che hanno fatto bene a perdere la vita: si sono fatti ammazzare per difendere la fede. Ogni volta che celebriamo un martire noi diciamo che perdere la vita è stato un valore, ha fatto bene, perché c’è qualcosa di più importante della vita, della vita fisica.
La lode dei martiri corrisponde proprio all’azione di ridimensionamento della vita fisica che non è un assoluto, come la famiglia. È importantissima la relazione con la famiglia, però il regno di Dio è più importante e seguire Gesù significa amarlo più del padre, della madre, dei figli, della famiglia terrena.
Quindi è cosa buona da difendere, ma non è un assoluto. Nella prospettiva di Cristo è superabile e la vita stessa non è un assoluto, perché di fronte alla relazione con Cristo, cioè ad un atto di fede maturo e autentico, la vita fisica passa in secondo ordine, si ritiene meno importante e può essere persa. Diventa allora necessario un grande equilibrio teologico nel riconoscere come queste parole possiamo tirarle un po’ a nostro arbitrio, possiamo adattarcele e allora l’equilibrio ci insegna a comprendere tutta la rivelazione nel suo insieme. Sottolineiamo anzitutto la difesa della vita, il rispetto della vita.
Il sangue di Abele
All’inizio del racconto biblico la prima vicenda della umanità cacciata dal giardino è l’uccisione di un fratello. Il primo morto non è morto di vecchiaia nel proprio letto.
La Bibbia vuole mettere all’inizio della storia umana il dramma della fraternità divisa: i primi due fratelli non vanno d’accordo, al punto che uno ammazza l’altro. Caino versa il sangue di Abele e il sangue del fratello grida al Signore. Il testo originale parla di “sangui” esprimendo con ciò il grido non solo di Abele, ma di ogni vittima umana innocente che sale a Dio. È una immagine poetica e teologica: le gocce di sangue, sparse per terra, hanno una voce, gridano al Signore, cioè chiedono al Signore che intervenga a fare giustizia. Abele non può più parlare, grida per lui il suo sangue e il Signore interviene e chiede a Caino: “Dov’è tuo fratello?”. Ipocritamente Caino risponde: “Sono forse il custode di mio fratello?”. Come se non ne sapesse niente e non ne fosse responsabile.
Questo testo primordiale ha il compito di insegnarci i fondamentali della vita; il fratello è responsabile del fratello: sì, tu sei custode di tuo fratello, hai il compito di custodire l’altro, di difendere la sua vita, di favorire la sua vita e quindi diventa assolutamente illogico danneggiare la sua vita, togliergli la vita. Questo primo racconto dell’umanità fuori dal giardino vuole mostrare come all’inizio il problema è proprio relativo alla vita: l’uomo toglie la vita all’uomo, è diventato una belva feroce per l’altro. Anziché essere una cosa sola con lui è diventato un avversario, un nemico, un concorrente pericoloso.
Così, nella vicenda del diluvio, quando ritorna il sereno e il Signore fa alleanza con Noè nel segno dell’arcobaleno, dice all’umanità dopo il diluvio:
Gn 9,5Del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello.
A ognuno il Signore chiede conto della vita di suo fratello; ognuno di noi è responsabile della vita dell’altro, anche perché, concretamente, la vita di ciascuno dipende dall’altro.
Mangiamo perché qualcuno ha fatto da mangiare, ma qualcuno precedentemente ha cotto il pane, ha coltivato la frutta e la verdura e ha allevato il bestiame. Non è solo l’ultimo atto della cucina a determinare il cibo.
Pensate da quante persone dipendiamo per poter mangiare. Se brucia una lampadina… semplicissimo, la si cambia e se in casa non ce n’è più si va a comprarne una. Ma ci vuole qualcuno che le produca le lampadine. Prova a produrtela in casa da solo la lampadina!
Allora tu hai la luce in casa grazie a qualcun altro ed è così per quasi tutto. La nostra vita dipende dagli altri, soltanto che viviamo in una catena così complessa che questo ci sembra naturale. A nostra volta ognuno di noi è di aiuto per la vita dell’altro. Questo è il senso profondo della parola del Signore: sii una persona vitale, che dà la vita, non che la toglie, ma che la favorisce, che la fa crescere. Ecco il senso dell’autorità. Sii padre e madre, onora il padre e la madre e a tua volta sii generatore di vita, non semplicemente nel senso fisico di mettere al mondo dei figli, ma nel senso spirituale umano completo: sii una persona che favorisce la vita. Poi possiamo tranquillamente passare in rassegna tutte le situazioni concrete che il comandamento del “non uccidere” prende in considerazione.
Non solo non uccidere, ma anche provocare la morte
È chiaro che il comandamento proibisce l’omicidio diretto e volontario, proibisce qualsiasi azione fatta con l’intenzione di provocare, anche indirettamente, la morte di una persona. Anche esporre qualcuno a un rischio mortale, senza grave motivo, è colpevole; rifiutare l’aiuto ad una persona in grave pericolo è colpevole, è un atteggiamento che fa morire. Non aiutare il naufrago, tollerare condizioni di miseria che portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio è gravemente colpevole. Lasciar morire è atteggiamento contrario alla vita. Quelle situazioni internazionali di commercio con pratiche usuraie che provocano la fame di intere nazioni e la morte di tante persone è un delitto contro l’umanità.
Ci sono molti modi di uccidere, ci sono anche i modi indiretti. Non è semplicemente un adattamento moderno, è una riflessione antica e biblica. Vi leggo due versetti del Siracide:
Sir 34,21Il pane dei bisognosi è la vita dei poveri, toglierlo a loro è commettere un assassinio. 22Uccide il prossimo chi gli toglie il nutrimento, versa sangue chi rifiuta il salario all’operaio.
È un discorso antico, non è una riflessione socialista moderna, è una applicazione ampia del precetto di Dio. È un assassinio togliere il cibo: “versa sangue chi non paga il dipendente”; l’uccisione della persona può infatti avvenire anche in modo indiretto. Arriviamo così a comprendere anche una uccisione morale, come il mettere una persona in stato di disperazione. L’umiliazione, l’offesa grave che toglie la dignità a una persona, è una violenza che uccide.
La menzogna, la calunnia, la maldicenza, il pettegolezzo, la diffamazione, la falsa accusa, l’insinuazione, sono tutti atteggiamenti – anche se solo verbali – che possono uccidere; non immediatamente e fisicamente, ma moralmente, spiritualmente e di questo si può essere gravemente colpevoli.
C’è una uccisione morale, ci sono delle persone che dicono di essere morte dentro perché è avvenuto qualche cosa che le ha ferite al punto da togliere la vita, da togliere la voglia di vivere. Chi è responsabile è un assassino e ognuno di noi è responsabile della vita dell’altro. Nelle nostre relazioni possiamo essere persone che danno la vita o persone che danno la morte, anche nel nostro piccolo, senza esagerare.
Tenendo conto di una diversa gradazione di colpa e di gravità, nelle nostre relazioni, con le nostre parole e i nostri atteggiamenti, possiamo favorire la vita, comunicare la voglia di vivere o possiamo demoralizzare, deprimere, distruggere, abbattere l’umore. Ci sono delle persone proprio istintivamente portate a gettare fango su tutto e a demolire l’umore. È una cultura di morte. Noi, alleati del Signore Dio, abbiamo una cultura di vita che dà valore alla vita, che apprezza la vita, che la valorizza, che la fa crescere nell’altro.
Non esiste la vita in teoria, la vita non è un concetto astratto, sono le persone vive, non si difende la vita in sé, si aiuta una persona a vivere, a vivere bene, a valorizzare la propria vita, ad affrontare le difficoltà e le sofferenze della vita.
Ecco allora come la nostra cultura moderna, che a parole sembra apprezzare tanto la vita, di fatto rischia di essere una cultura di morte, perché di fronte ai problemi e alle difficoltà non sa valorizzare la vita, ma sceglie la morte come soluzione. Negare la vita per eliminare il problema: è questo il principio di tanti comportamenti colpevoli.
Pensate quanti casi si stanno moltiplicando, drammaticamente, di omicidi–suicidi e per lo più in ambito familiare come risultato di una relazione d’amore. A che cosa porta l’amore? Nel momento in cui c’è il problema, non sapendolo risolvere altrimenti si sceglie la morte: ammazzo te e poi mi ammazzo e questo per non affrontare il problema della giustizia, per fuggire.
La mancanza di timor di Dio
Temo che questo sia un tremendo segno di perdita del timor di Dio. Manca veramente il senso della vita e il senso di Dio, perché l’Innominato – di manzoniana memoria – quella notte della crisi prese la pistola ed era sul punto di farla finita. Poi gli venne in mente: “E se quel che dicono i preti fosse vero?”. E se ammazzandomi non risolvessi il problema, ma finissi all’inferno e rovinassi così totalmente la mia vita? Sarebbe ancora peggio. Meglio allora togliere la pistola e ripensarci; è meglio andare a parlare con un sant’uomo e confessare il peccato, piuttosto che spararsi. È il grande esempio che Manzoni racconta; è un esempio dell’‘800 che vale benissimo nel ‘900 e nel duemila.
Il problema è che non viene in mente che la morte non è l’ultima parola, che c’è una responsabilità al di là e quindi adesso sto male, ma questa soluzione potrebbe peggiorare la mia condizione e peggiorarla in modo eterno. Ma allora che soluzione è, se è peggiore del problema? Allora la rifiuto assolutamente.
Se però manca il timor di Dio, se non c’è la consapevolezza della presenza di Dio, siamo fuori dell’alleanza, non c’è quel rapporto di alleanza che mi fa concepire che la morte non è mai una soluzione per scappare dai problemi. Scegliere la linea della morte non risolve il problema. Non siamo difensori della vita ad ogni costo, siamo difensori del Signore della vita che ci dà la capacità di attraversare il problema, se abbiamo l’umiltà di invocarlo. Il Signore proprio nella notte fa sorgere la luce; nel momento della grande crisi, del grande dolore, dà la forza per attraversare a arrivare oltre. Questo è il grande e forte messaggio positivo.
Pensate ai grandi problemi della nostra società moderna: l’aborto, l’eutanasia, il suicidio, la droga o i sistemi ad esempio usati nello sport per moltiplicare le energie, sapendo che rovinano e portano alla morte. Per scendere di livello, ma sempre rimanendone colpevoli, possiamo considerare anche il fumo, visto che ne è riconosciuta la indiscussa nocività.
Sono tanti esempi drammatici che possono essere riassunti, sintetizzati in questa unica grande idea: di fronte ad un problema che con le mie forze non sono capace ad affrontare scelgo la morte come soluzione.
Perché una mamma decide di abortire? Perché ha un problema, perché vede una o tante difficoltà, non ha la forza di affrontarle e pensa di risolvere il problema eliminando la vita, eliminando la persona indifesa che costituisce il problema. Ugualmente l’eutanasia: è una situazione di dolore, di difficoltà, di grave problema e di fronte ad una incapacità di affrontare il problema si sceglie come via la morte.
La parola di Dio ci insegna che non è questa la strada e la nostra cultura della vita deve insegnarci a diventare persone responsabili della vita dell’altro, capaci di accompagnare chi è nella sofferenza, chi è di fronte ad un problema che ritiene insuperabile: insieme possiamo superarlo.
Il nostro compito non è quello di ribadire dei no, di dire “non si deve fare”; si tratta invece di formare una cultura e di dare una mano, di metterci cuore e mano perché il problema possa essere affrontato insieme. In molte situazioni la chiesa opera infatti concretamente per aiutare, per affrontare i problemi, sia nel caso di madri in difficoltà, sia nel caso di malati terminali in gravi difficoltà. Quante persone di chiesa si occupano di queste situazioni ed è l’aiuto alla vita.
Vorrei però invitarvi a non fermarvi ai grandi sistemi e ai grandi problemi, ma a scendere più concretamente, perché le grandi situazioni si affrontano con la mentalità quotidiana, cioè con lo stile di vita di sempre. La cultura della vita implica il rispetto della dignità della persona; il rispetto della personalità altrui, la valorizzazione dell’anima dell’altro e il primo grave peccato contro questo rispetto è lo scandalo: con il cattivo esempio si rischia di far morire la fede.
Lo scandalo
Uno scandalo ecclesiastico, un comportamento scandaloso di una persona di chiesa, rischia di far morire la fede di qualcuno. Scandalo in greco vuol dire inciampo.
Ci sono i grandi scandali che fanno del male, sono autentiche bastonate, ferite che possono diventare mortali; ci sono però anche i piccoli scandali e a volte, nelle nostre comunità, rischiamo di essere di inciampo, di mettere i bastoni fra le ruote all’altro.
Pensate a tutti gli atteggiamenti di invidia, di gelosia che rovinano le nostre comunità: l’incapacità di collaborare e il fatto di godere perché l’iniziativa dell’altro è fallita e di non fare niente per aiutarlo, perché io non sono stato interessato, né ascoltato quando mi è stato chiesto un parere. C’è una difesa morbosa, egoistica dell’io che produce la morte dell’altro, la morte dell’iniziativa, la morte della vita comunitaria. Io posso essere scandalo se faccio inciampare, se faccio cadere, se faccio rovinare una iniziativa; in questo caso io sto vivendo una cultura di morte.
Il rispetto della salute, la valorizzazione della propria e dell’altrui salute – senza arrivare ad idolatrare la vita e la salute fisica come il massimo dei beni – è un fatto positivo; l’eccesso di lavoro e di trascuratezza non appartiene infatti alla cultura della vita perché la salute è un dono di Dio che deve essere valorizzato e difeso e in questo ci si aiuta a vicenda. Disprezzare la propria salute non è un segno di equilibrio religioso.
Tutto ciò che è dispregiativo della persona, che la danneggia, quindi anche il rispetto del fisico è aspetto importante in questa ottica.
Le punizioni corporee, l’alzare le mani, la violenza fisica, gli abusi sulla libertà dell’altro, gli abusi sessuali su giovani – purtroppo le cronache ci hanno parlato di tanti scandali anche ecclesiastici di questo tipo – sono comportamenti terribilmente gravi e colpevoli. Il discorso non è tanto sessuale, è proprio un discorso di violenza, di morte, di scandalo che uccide e queste realtà purtroppo si annidano anche nelle nostre realtà di chiesa.
L’aspetto positivo del comandamento “non uccidere” è quello della pace, della buona relazione, della fraternità. Il Signore chiede la pace del cuore e denuncia l’immoralità dell’ira e dell’odio. Scrive s. Giovanni nella prima lettera:
1Gv 3,15Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna.
Odiare il fratello è essere omicidi; ma anche Gesù ha ampliato così il comandamento. Leggiamo infatti nel vangelo secondo Matteo, là dove si presenta la nuova alleanza, proprio il riferimento a questo comandamento con l’apertura nuova:
Mt 5,21Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non uccidere”; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.
Questa è l’interpretazione radicale di Gesù che va a fondo. Chi odia il fratello è omicida. L’ira, la vendetta, la rabbia, quell’atteggiamento astioso covato nel cuore contro le persone è contrario alla vita. È uno stile che può anche essere nostro, che può non vedersi all’esterno, perché il rischio di essere sepolcri imbiancati c’è anche per noi: fuori c’è il sorrisino imbiancato, ma dentro c’è il marcio dell’odio, del rancore, dell’ira che cerca l’occasione per fartela pagare.
Il Signore ci chiede di essere persone di pace che superano questo male; l’odio e l’ira sono strumenti di morte, non appartengono al Signore. Noi, suoi alleati, dobbiamo superare questa realtà di morte cominciando a superarla dentro di noi, estirpando dal nostro cuore tutte queste male piante che rovinano l’orto di Dio.
Il rispetto e lo sviluppo della vita umana richiedono la pace, il Signore ci chiede di essere operatori di pace, costruttori di bene, realizzatori di una vita buona, difensori della vita, capaci di aiutare le persone a vivere per poter testimoniare una vita bella: la bellezza della vita che il Signore ci ha donato. Non la difendiamo in teoria, la salviamo nella pratica della nostra esistenza.
VI. “Non commettere adulterio”
Il sesto comandamento è formulato anch’esso in modo semplice: “Non commetterai adulterio”; rientra nello schema fondamentale della vita e della relazione di affetto con il Signore. Proprio perché il Decalogo esprime la relazione di alleanza tra il Signore e il suo popolo, ne deriva come conseguenza l’esclusione dell’adulterio.
La forma originale del Decalogo – sia nella redazione dell’Esodo, sia in quella del Deuteronomio – fa riferimento alla situazione dell’adulterio, cioè del tradimento coniugale, della infedeltà al rapporto matrimoniale. In qualche modo i tre precetti che seguono a quello dell’onore da dare ai genitori evidenziano la sottrazione di un bene fondamentale: rubare la vita, rubare la moglie, rubare la proprietà. Vengono cioè espresse le situazioni negative in cui la cattiveria e la bramosia dell’uomo finiscono per aggredire l’altro togliendogli qualche cosa di importante.
Abbiamo visto come il comandamento “non ucciderai” sia positivamente legato alla vita: non togliere la vita, ma al contrario sii datore di vita. Così, analogamente, dobbiamo ragionare sul comandamento “non commetterai adulterio” come l’esclusione del togliere l’amore nella relazione giusta del matrimonio. Questo precetto all’opposto, in senso positivo, diventa un comando che invita a dare amore, a rispettare la relazione della giustizia.
L’alleanza come matrimonio
Credo che sia importante partire proprio dalla considerazione che i profeti, molte volte, hanno adoperato la relazione matrimoniale per presentare il rapporto tra Dio e il popolo.
L’alleanza è spesso presentata come un matrimonio. È stata una idea geniale di Osea, ma l’hanno ripresa Isaia, Geremia, Ezechiele e ritorna in molti altri testi biblici, per cui l’istituzione matrimoniale – intesa come un patto tra due persone – è diventata il modello teologico per capire il modo con cui Dio si rapporta alle persone. L’alleanza matrimoniale ha una valenza divina, è un modo con cui si esprime l’amore fedele e costante di Dio.
Ma esprime anche il dramma della infedeltà, perché se da una parte il Signore mantiene la parola e rimane fedele, dall’altra parte il popolo di Israele non mantiene la parola, non resta fedele. Il popolo viene accusato di essere adultero, viene accusato di prostituirsi. In realtà si tratta di un tradimento religioso: adorano altri dei. Questo è un atto di prostituzione – dicono i profeti – e rimproverano il popolo dicendo: vi siete prostituiti adorando altri dei, siete andati dietro a degli amanti, venendo così meno alla fedeltà all’unico Signore.
Sapete che nella tradizione cananea una delle divinità fondamentali si chiamava Baal, che vuol dire padrone, ma anche marito e quindi nel momento in cui Baal diventa antagonista di YHWH è un altro marito che Israele si è cercato, tradendo la fedeltà a YHWH.
È quindi una storia drammatica di adulterio e i profeti hanno letto la storia della salvezza come il dramma di una coppia in crisi. Il precetto del Decalogo, quindi, fa riferimento essenzialmente alla alleanza matrimoniale e stabilisce che tale rapporto deve essere fedele e permanente; non può essere violato. La violazione del patto diventa grave ingiustizia, è negare l’amore, negare la fedeltà, venir meno alla parola data. Questo non è bene!
Il matrimonio nel mondo biblico
La tradizione del matrimonio nel mondo biblico ha subito una notevole modificazione, anche una crescita. L’esperienza più antica del popolo conosceva la poligamia; abbiamo infatti personaggi importanti come Mosè, Abramo, Giacobbe che vengono presentati con più mogli, ma i narratori sottolineano sempre che si tratta di un fatto antico e lo contestano nel racconto, mostrano che quelle situazioni non sono buone. Lentamente in Israele è maturata la monogamia, cioè la valorizzazione di un unico rapporto nuziale tra un uomo e una donna, ma c’è stata anche la possibilità di sciogliere tale legame.
Una prassi abbastanza frequente ha dato all’uomo la possibilità di sciogliere il patto nuziale con un certo arbitrio: decisamente è una posizione maschilista che dà all’uomo il potere di rimandare la moglie. In alcune correnti tardive del giudaismo si matura la consapevolezza che questo comportamento sia sbagliato. Lo troviamo ad esempio nel profeta Malachia che è l’ultimo dei profeti, l’ultimo libro dell’Antico Testamento; le nostre edizioni subito dopo Malachia pongono infatti Matteo.
Al capitolo 2 questo profeta rimprovera il popolo…
Ml 2,14Perché il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che ora perfidamente tradisci, mentre essa è la tua consorte, la donna legata a te da un patto.
Il Signore rimprovera per questa prassi del ripudio e così prosegue l’antico testo
15Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest’unico essere, se non prole da parte di Dio? Custodite dunque il vostro soffio vitale e nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. 16Perché io detesto il ripudio, dice il Signore Dio d’Israele, e chi copre d’iniquità la propria veste, dice il Signore degli eserciti. Custodite la vostra vita dunque e non vogliate agire con perfidia.
Questa è una formulazione antica e molto importante che una certa corrente del giudaismo non prendeva affatto in considerazione. Viene affermato che il Signore detesta il ripudio e che il progetto iniziale è quello di un unico essere, per cui mantenere la fedeltà alla donna della giovinezza significa custodire il soffio vitale, cioè mantenere la vita, difendere la vita. La fedeltà nell’amore è sinonimo di vita. In questa linea si esprime chiaramente il Signore Gesù quando gli pongono la questione del ripudio. Ad esempio leggiamo in Matteo 19:
Mt 19,3Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “E lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?”. 4Ed egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio “li creò maschio e femmina” e disse: 5Per questo l’uomo “lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola”?
Lo avete letto, e allora tirare le conseguenze…
6Così che non sono più due, ma una carne sola.
Gesù propone una esegesi molto simile a quella di Malachia: “un unico essere”.
Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”.
Se diventano un unico essere non può venire diviso, è una creazione nuova, unitaria, che non può essere separata. La domanda gliel’avevano fatta semplicemente per sapere quali erano le sue opinioni sulle cause che giustificavano il ripudio; c’erano infatti diverse correnti di giuristi con opinioni differenti e volevano inquadrare Gesù in una di queste correnti. Qual è il motivo per il quale un uomo può ripudiare la moglie? La risposta di Gesù li spiazza perché dice: nessuno. Non c’è nessun ripudio, il ripudio è detestabile. Ma loro…
7Gli obiettarono: “Perché allora Mosè ha ordinato “di darle l’atto di ripudio e mandarla via”?”.
Il riferimento è a Deuteronomio 24. In verità non è che Mosè abbia ordinato di dare il ripudio, Gesù corregge: non l’ha ordinato, lo ha permesso.
8Rispose loro Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così.
Non ha detto che si deve, ha detto che si può e lo ha permesso perché avete la testa dura, perché siete incapaci di amare, perché avete il cuore di pietra. Non è un riferimento semplicemente agli ascoltatori di quel momento, non è un discorso che vale solo per i giudei, è un discorso universale. La concessione del ripudio è un abbassamento dovuto alla incapacità dell’uomo di amare. L’uomo non è capace di amore autentico e fedele e quindi, tenendo conto della durezza del cuore, la legge si è piegata, concedendo qualche cosa che però non è un bene in assoluto.
Il cambio del cuore
«All’inizio però non fu così». Gesù sa com’è all’inizio: il progetto di Dio non è questo. Dove sta allora la novità di Gesù? Non nel fatto di dare una legge più severa, nel proporre un rigorismo morale che restringe, ma nel dare la possibilità di un cuore che sappia veramente amare. Mosè vi ha concesso il ripudio per la durezza del cuore; io adesso faccio qualcosa di diverso: cambio il cuore, trasformo il cuore di pietra in un cuore di carne, rendo la persona capace di amore autentico, fedele, duraturo.
Il dono del cuore nuovo è la nuova alleanza, non le regole; non cambiano le regole, cambia il cuore ed è questo l’elemento determinante.
Gesù riporta l’uomo alla santità della prima origine: questo è l’evento della salvezza. Non il cambiamento delle regole, l’inasprimento delle norme, ma la trasformazione del cuore che abilita ad una vita piena. Il progetto iniziale allora, grazie a Gesù, si può realizzare e quel tradimento che era stato l’adulterio di Israele viene recuperato nella nuova relazione con la chiesa, la sposa dell’Agnello, pronta e adornata per le nozze, resa fedele dal sangue dell’Agnello.
Vedete come il precetto del Decalogo abbia una dimensione teologica molto ampia, al punto che va dal progetto originale dell’inizio fino al compimento escatologico delle nozze dell’Agnello con la sua sposa.
Dentro a questa relazione che Dio vuole avere con la nostra umanità si colloca concretamente l’esperienza del nostro amore umano. Al di là della violazione del patto coniugale, in questo sesto comandamento noi scopriamo quindi la ricchezza della sessualità, cioè della conformazione della nostra persona ad una dinamica di amore.
La sessualità
La sessualità esercita un’influenza su tutti gli aspetti della persona umana, nell’unità del suo corpo e della sua anima. Essa concerne soprattutto l’affettività, la capacità di amare, l’attitudine ad intrecciare rapporti di comunione con gli altri.
Chiamiamo sessualità proprio questa connotazione della persona umana alla relazione; l’immagine di Dio nell’uomo sta nella creazione “maschio e femmina”, perché l’immagine è la relazione, la capacità di rapporto con l’altro; è quella che si può chiamare alterità, cioè la scoperta dell’altro diverso da me.
La sessualità, come tutti gli altri elementi della nostra esperienza umana, è corrotta, è rovinata dal peccato. Ma non è cattiva in sé, è un bene corrotto. Anche la religiosità è corrotta; istintivamente siamo inclinati al male anche da un punto di vista religioso. La religiosità che ci viene istintiva è cattiva, ha bisogno di essere redenta, così come anche l’istinto sessuale è cattivo e ha bisogno di essere redento, così come l’istinto aggressivo nei confronti dell’altro, che vuole sopprimere l’avversario.
Ogni nostra realtà umana segnata dal peccato è corrotta, è inclinata al male, ma non è questa la bella notizia. La bella notizia è che Gesù redime tutti gli aspetti dell’umanità.
Non dobbiamo chiudere gli occhi su questo fatto della corruzione illudendoci di essere degli angeli da tutti i punti di vista. Guardate i bambini: non sono per nulla angelici. Hanno i faccini carini, simpatici, ma l’animo è cattivo, perverso, violento, possessivo, geloso, prepotente, esibizionista, invadente. Li hanno tutti i difetti, sono uno specchio dell’umanità nella sua espressione peggiore. Il fatto è che, essendo piccoli, sono teneri, simpatici e tanto danno non possono ancora farlo. Hanno però quella umanità corrotta, non nascono buoni, possono diventarlo, ma hanno bisogno di un’opera di redenzione, di liberazione, di salvezza, di educazione. Se non c’è quest’opera la natura peggiora e non c’è una capacità relazionale; anziché sviluppare la vita si sviluppa la morte, anziché sviluppare l’amore si sviluppa la violenza, la conquista, il dominio, lo sfruttamento.
La castità
La redenzione della sessualità nella tradizione cristiana prende il nome di castità, che esprime propriamente la positiva integrazione della sessualità nella persona e quindi l’unità interiore della persona umana nel suo essere corporeo e spirituale. La castità è l’integrazione della sessualità nella nostra vita che è fatta di corpo e di spirito.
La parola castità, quindi, non indica esclusione della vita sessuale, ma designa una integrazione, una maturazione, una capacità di vita corretta e buona della sessualità. Inoltre, per sessualità, dobbiamo intendere tutta la nostra conformazione personale, a partire dal carattere.
Purtroppo il linguaggio banalizzante dei mass media fa sì che sessualità sia sinonimo di genitalità, ma in realtà il riferimento è a tutta la persona. Comprende infatti il modo di fare, il modo di parlare, il modo di rapportarsi, il modo di sentire e il modo di pensare che è diverso da un uomo a una donna e questa connotazione, che distingue l’uno dall’altro, prende tutta la persona; ecco perché anzitutto deve essere integrata nella persona. La castità richiede l’acquisizione del dominio di sé che è pedagogia per la libertà umana.
“Non servirete gli idoli, non vi prostrerete davanti a false immagini di Dio, non servirete le vostre passioni”, ma anche l’omicidio e la violenza sono il risultato di una passione non dominata. È il caso dell’ira, dell’odio: “Mi fai venire un nervoso che ti ammazzerei”. Esattamente è quello; non lo faccio, ma lo farei. La passione dell’ira mi porterebbe alla uccisione; così la passione amorosa che muove la sessualità porterebbe a comportamenti scorretti, disordinati.
Se la persona umana non matura con il dominio di sé diventa schiava delle proprie passioni e, anziché raggiungere l’equilibrio della pace, si lascia asservire dalle passioni e ne diventa infelice, inevitabilmente.
Quindi la virtù morale della castità è strettamente legata alla virtù cardinale della temperanza, della moderazione, dell’equilibrio, della capacità di controllo, ma questo dominio di sé è un’opera di lungo respiro. Non la si acquisisce mai una volta per tutte, suppone un impegno da ricominciare ad ogni età della vita.
La castità conosce leggi di crescita; dà più problemi in certe fasi della vita, ma subisce una dinamica di crescita, di maturazione. È una virtù, cioè una capacità che noi possiamo sviluppare, ma è anzitutto un dono di Dio, una grazia, è il frutto dello Spirito Santo, è la grazia della redenzione che redime l’inclinazione al male per orientare al bene dell’amore la nostra costituzione umana fortemente segnata dalla sessualità.
Quindi questa integrazione della persona, guidata dalla carità di Dio, fa sì che la castità diventi dono totale di sé. La padronanza di sé è ordinata al dono di sé. Molto importante.
Io divento padrone di me stesso non per fare di me quello che voglio, ma per poter fare di me un dono; non sono schiavo degli istinti, delle passioni, dei moti disordinati dell’anima, ne sono padrone per poter fare dono. La castità implica la padronanza di sé per poter fare dono totale di sé.
Anzitutto la castità si realizza nella amicizia, cioè una persona matura, integrata, capace di dono di sé è una persona capace di amicizia, capace di relazioni buone con il prossimo. E come si chiamano queste relazioni buone se non amicizia? Possono essere molto varie, ma sono esperienze di buona relazione; se non c’è dono di sé non c’è amicizia.
Molte volte i giovani usano espressioni ambigue e scorrette. Ad esempio, quando finisce una relazione amorosa dicono: “Siamo rimasti solo amici, c’è soltanto più amicizia, adesso non c’è più amore”. Io credo che invece bisogna capovolgere completamente l’idea.
L’amicizia non è meno, ma è di più, perché al di là della passione che può legare un uomo e una donna al punto da farli diventare una cosa sola in una alleanza nuziale, la relazione di amicizia è l’elemento costitutivo e fondamentale. Se un marito considera la migliore amica la moglie è un uomo fortunato; se la moglie sente nel marito un autentico amico è fortunata. Il guaio è che molte volte la moglie è la moglie e poi per star bene si esce con gli amici e la moglie ha bisogno delle sue amiche per potersi sfogare del marito. L’amicizia è un vertice, laddove è autentica e profonda, è una esperienza grandiosa di integrazione della persona e di dono di sé.
Ora, questa dimensione della amicizia è quella fondamentale che accomuna tutti, indistintamente, ma ricordiamo che ogni battezzato è chiamato alla castità – certamente in forme diverse – secondo il particolare stato di vita. Gli sposi sono chiamati ad una unione casta che non vuol dire senza rapporti sessuali, vuol dire che vivono la sessualità nel modo corretto e redento, da sposi. E chi non è sposato, il celibe, la persona che ha consacrato la propria verginità, vive la castità nella continenza, ma è necessario che la sessualità sia maturata e realizzata.
Dunque, si intende per castità questa buona relazione di amore.
Come nel precetto di “non uccidere” abbiamo visto la potenzialità della vita, essere persone che sanno trasmettere la vita e costruire pace, così nel precetto del “non commetterai adulterio” non c’è semplicemente il discorso delle offese al matrimonio, e allora elenchiamo l’adulterio, la fornicazione, il divorzio, le libere unioni, il concubinato e le offese alla castità facendo tutti gli elenchi possibili dei peccati sessuali. Queste realtà di peccato ci sono, sono delle realtà negative, ma è da valorizzare l’aspetto positivo che c’è dietro al precetto, e questo lo abbiamo recuperato proprio dal discorso originale della relazione fra Dio e l’umanità.
Il Signore, chiedendoci di essere suoi alleati, ci chiede di essere persone d’amore, persone che sanno trasmettere amore, persone integrate, mature, fedeli, che sanno mantenere la parola, che sanno mantenere la relazione, che sanno valorizzare i tempi e i modi, persone padrone di sé al punto da saper fare di sé un dono completo.
Ed è proprio questa maturazione del dono di sé, fedele e costante, che caratterizza anche la vita dei consacrati, dove la sessualità non è rimossa, ma realizzata in un’altra prospettiva e la scelta del non matrimonio diventa un annuncio escatologico: è l’annuncio di un mondo nuovo dove – come dice Gesù – non prenderanno né moglie né marito.
Noi abbiamo cominciato questo mondo escatologico dicendo che crediamo a questo futuro realizzato da Dio, ma perché la nostra testimonianza evangelica sia credibile è necessario che in noi non vedano semplicemente delle persone frustrate, private di qualche cosa, zitelle inacidite. È invece necessario che incontrino delle persone che sanno amare, capaci di amicizia, capaci di relazione, mature al punto da far dono di sé, senza quegli atteggiamenti infantili della conquista, del dominio, della pretesa. Lo vedete nei bambini dell’asilo: oggi c’è un bombardamento ideologico e quindi hanno già i fidanzatini da piccoli, ma fa parte di un istinto. In genere sono le bambine che lo fanno: ne prendono uno e… questo è mio. È una deformazione, non c’è il dono di sé, c’è la presa dell’altro per il dominio.
Non commettere adulterio è proprio radicato in questo: non tradire il desiderio di amore che ti è stato dato e quell’impegno di amore che hai puoi realizzarlo. La durezza del cuore è superata: il Cristo crea una realtà nuova, puoi essere fedele, puoi donare totalmente te stesso, puoi vivere nell’alleanza.
VII. “Non rubare”
Settimo: “Non rubare”. La formulazione è semplice ed essenziale. È il terzo comando apodittico negativo ridotto all’essenziale. Semplicemente la particella negativa e un verbo. In italiano “commettere adulterio” sono due parole mentre nell’originale ebraico è un verbo solo, quindi abbiamo per tre volte una formulazione simile: uccidere, commettere adulterio, rubare.
È una terna importante di comandi essenziali in difesa della persona, in difesa della vita, in difesa delle relazioni d’amore stabili, in difesa delle cose, delle realtà concrete che appartengono a una persona e fanno parte della sua vita. Il settimo comandamento proibisce di prendere o di tenere ingiustamente i beni del prossimo e di arrecare danno al prossimo nei suoi beni, in qualunque modo. Il settimo comandamento prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali.
Anzitutto la persona
Nella formulazione antica – dovremmo dire arcaica – il primo oggetto che si proibisce di rubare è la persona umana; è quello che noi chiamiamo sequestro di persona. Nella situazione del mondo antico e purtroppo ancora presente in certe aree del mondo, il furto delle persone serviva per creare gli schiavi, cioè la manovalanza gratuita.
Noi oggi conosciamo il fenomeno del sequestro di persona a scopo di ricatto o di vendetta; nell’antichità il sequestro comportava poi la schiavitù per il resto della vita e allora venivano in genere rapiti giovani, uomini e donne, per sfruttarli come schiavi. Nel mondo arabo, attualmente, soprattutto in Africa è ancora presente questo fenomeno di razzie con schiavizzazione delle persone.
Questo all’origine è il principio cardine: la persona ha una dignità e non può essere usata come un oggetto: non puoi togliere la vita, non puoi tradire un impegno d’amore, non puoi rubare la libertà.
Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla condizione di schiavo, di conseguenza tu non ruberai, cioè non prenderai in modo abusivo i beni degli altri.
La destinazione universale dei beni
Questo precetto si inserisce in una mentalità religiosa che considera i beni della creazione come destinati a tutto il genere umano. C’è alla base di tutto la convinzione che i beni, tutte le cose create, hanno una destinazione universale, sono per tutti, nessuno è padrone del mondo, se non il Signore.
Il Signore ha affidato all’uomo, cioè a tutti gli uomini, i beni della creazione. Secondo il testo fondamentale di Genesi 1, Dio creatore ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell’umanità. Leggiamo infatti:
Gn 1,26E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.
L’uomo, creato a immagine di Dio, è costituito sopra gli animali.
27Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.
L’immagine di Dio nell’uomo è radicata nella relazione, nella capacità di relazionarsi con l’altro diverso da sé, ma della stessa natura, simile in tutto.
28Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”.
Quei due verbi: soggiogare e dominare non dicono una padronanza assoluta, ma una gestione responsabile. L’uomo viene costituito pastore degli animali, responsabile degli esseri viventi, capace di mettere loro il giogo e di prendersene cura. Quindi la prospettiva originale è che l’uomo usi i beni della terra con la saggezza dell’amministratore; è il rappresentante del Signore, ma il padrone resta Dio. L’uomo è il fattore, è colui che ha in gestione il mondo, senza averne la proprietà.
Alla fine del Libro del Levitico, al capitolo 25, a proposito delle regole del giubileo, viene formulato un principio fondamentale di teologia.
Lv 25,23Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini.
Così dice il Signore. Qui è formulata in modo esplicito la dottrina che l’unico padrone è il Signore; noi siamo forestieri e inquilini. La terra appartiene a Dio. Tuttavia l’appropriazione dei beni è legittima, il fatto cioè che ognuno abbia una proprietà è giusto. Tutto è destinato a tutti, ma dal momento che non siamo una massa informe, ma persone con una dignità, la proprietà di una parte della terra è secondo la legge di Dio. Infatti, nella conquista della terra, che poi in realtà è un regalo che Dio fa, viene sorteggiata la parte che spetta a ciascuno.
La proprietà privata
Ogni tribù, ogni famiglia all’interno della tribù, ha una parte della terra; c’è una equa divisione dove ognuno ha il suo. Se ne deduce, quindi, che la proprietà privata dei beni è legittima ed è finalizzata a garantire la libertà e la dignità della persona.
Le idee collettiviste che annullano la proprietà privata finiscono per idolatrare lo stato e le esperienze storiche, anche abbastanza vicine a noi nel tempo, hanno dimostrato il fallimento del metodo, perché eliminare la proprietà privata significa eliminare la dignità della persona. Di fatto, poi, c’è qualcuno che possiede, che comanda e sfrutta una grande massa di gente che di nome viene definita proprietaria collettiva, ma di fatto è una nuova povertà proletaria, senza la dignità della persona. Dobbiamo quindi tenere sempre presente questa doppia realtà; è un altro di quegli aspetti teologici in cui ci è chiesto equilibrio.
La terra e i beni hanno una destinazione universale e tuttavia ognuno ha una parte ed è giusto che l’abbia per la propria libertà e la dignità della persona. Questa proprietà privata favorisce la responsabilità della persona, perché quando uno è in proprio si sente più responsabile ed è giusto che la responsabilità cresca perché fa parte della dignità della persona.
Un esempio biblico: la vigna di Nabot
Pensate a un episodio importante, raccontato nella storia di Elia, che è il delitto di Nabot di Izreel, proprietario di una vigna nella pianura di Izreeel. Il re Acab vuole quella vigna, desidera il campo altrui. Nabot gli dice di no perché è la terra dei padri, perché difende una tradizione religiosa: la terra è un patrimonio regalato da Dio, lungi da me vendere ciò che mi è stato regalato. “È un dono di Dio, io non posso venderlo”.
Non è semplicemente un discorso economico, è la riflessione teologica di un uomo che vuole conservare le tradizioni di fede del popolo; la terra non è mia, mi è stata affidata, come posso venderla. Acab si lamenta con la moglie Gezabele di questo rifiuto e la donna, intraprendente, dice: “Te lo organizzo io il sistema”. Falsa testimonianza. Nabot viene accusato ingiustamente, viene condannato a morte, lo uccidono e a questo punto il re gli ruba la vigna che non ha voluto vendere. Notate come i comandamenti si intrecciano e quando si comincia a infrangerne uno crollano tutti gli altri.
Anche la storia di Davide con Betsabea è una storia di desiderio, di adulterio, di uccisione, di falsa testimonianza, di furto della moglie. Sono esempi importanti raccontati come colpe commesse da re, per dimostrare che il tradimento dell’alleanza era nei massimi sistemi, nei vertici e dappertutto nella struttura di Israele.
Dunque, il settimo comandamento chiede il rispetto della dignità umana relativamente ai beni posseduti, perché i beni fanno parte della vita, fanno parte della persona, a cominciare dalla terra, dalla casa, per arrivare poi a tutti gli oggetti che servono per la vita.
Ora, per comprendere bene quello che chiede il comando di Dio, bisogna ricordare che il rispetto della dignità umana, a proposito dei beni, esige la virtù della temperanza e della giustizia. La temperanza noi in linguaggio più moderno la definiremmo moderazione, equilibrio. Dunque, l’atteggiamento corretto è l’equilibrio nell’attaccamento ai beni di questo mondo; d’altra parte la giustizia è quella che ci insegna a rispettare i diritti del prossimo e a dargli ciò che è dovuto: distinguere il mio dal tuo.
Avrete notato come istintivamente i bambini hanno il senso della giustizia e protestano per le ingiustizie, però confondono il mio con il tuo, e sempre in una direzione sola: prendono quello dell’altro dicendo “mio”. È l’istinto primordiale. I bambini – più sono piccoli e meglio lo rappresentano – sono l’uomo primitivo: mostrano la radicalità della corruzione. Il bambino comincia a gattonare, prende il giocattolo dell’altro e dice “mio”. È difficilissimo che qualcuno prenda il proprio e lo consegni all’altro dicendo “tuo”.
Ecco la dimensione elementare, qui c’è il settimo comandamento: al di là del non prendere ciò che non è tuo, il Signore ti insegna a dare ciò che è tuo.
Il comportamento generale non assolve
Partendo da equilibrio e giustizia si ottiene la solidarietà, cioè la capacità di relazionarsi in modo equilibrato e giusto prendendo a cuore le esigenze dell’altro. La solidarietà implica la comunione, la condivisione; richiede che uno si accorga che l’altro ha bisogno e porta alla condivisione. Quindi, la pienezza del precetto “non rubare” sta nella solidarietà generosa. Non siamo persone che prendono, non siamo persone che tengono; in quanto alleate di Dio siamo persone equilibrate e giuste che usano saggiamente i beni terreni e sono disponibili a farne parte a chi ha bisogno: siamo persone che danno.
Guardate l’esempio di Gesù, dice s. Paolo in un testo splendido.
2Cor 8,9Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
La vicenda stessa del Cristo viene presentata come il modello di chi è ricco e accetta di svuotarsi per arricchire gli altri con la propria generosità.
Dunque, alla lettera, il comandamento del non rubare ci chiede di non usurpare il bene altrui contro la ragionevole volontà del proprietario e questo vale nelle piccole e nelle grandi cose: prendere qualcosa che appartiene all’altro. Analogamente, è considerato furto tenere deliberatamente qualcosa preso in prestito o commettere frode nel commercio, variare i pesi, truccare le misure, pagare salari ingiusti, alzare i prezzi speculando sull’ignoranza o sul bisogno degli altri.
Ho sentito un servizio giornalistico recente in cui hanno mandato degli stranieri a Venezia a prendere una bibita e un panino in tre bar diversi del centro e subito dopo una coppia di italiani a prendere la stessa identica cosa. Hanno potuto filmare come agli stranieri il prezzo sia stato alzato quasi del doppio: è una speculazione sulla persona; non sa la lingua, ti accorgi che è straniero, che domani non sarà più qui e quindi rubi. Di cose simili ne accadono molte. Siamo inseriti in un mondo di ladri, ma è anche un mondo di assassini e di adulteri. Il dramma è che questo sistema rischia di diventare normale.
Con il criterio del “lo fanno tutti, perché non devo farlo io?” l’alleanza viene tradita in tutti i sensi. Il popolo di Dio è fuori dall’alleanza, perché non è questione di qualcuno, è tragico quando diventa mentalità comune. Dal momento che rubano tutti diventa normale rubare, anche nelle piccole cose, anche nei piccoli atteggiamenti.
Il principio però è sempre quello: non rispettare la dignità della persona, dell’altra persona e usurpare contro la sua volontà qualcosa che è suo. E così rientra nel mondo del furto la speculazione, la corruzione, l’uso privato dei beni sociali, i lavori fatti male perché non c’è il controllo di qualcuno, la frode fiscale, le spese eccessive, lo sperpero dei denari e dei beni; sono tutte violazioni dell’equilibrio e della giustizia.
Anche la frequentissima “raccomandazione”, nel caso che danneggi un’altra persona, quando cioè ingiustamente ne prende il posto, o sale immeritatamente in una graduatoria, è una forma di furto.
Rientra in questa ottica anche il rispetto della creazione, perché i beni del creato sono un patrimonio comune. La creazione è destinata al bene comune di tutti e la signoria che l’uomo ha sugli animali e sulla natura non è assoluta, quindi ci è chiesto un religioso rispetto dell’integrità della creazione. Rovinare le energie del creato, sfruttarle eccessivamente, rovinare l’ambiente, contaminare, inquinare le falde acquifere è un danno, è un rubare ciò che appartiene a tutti per il proprio egoistico interesse.
Questi comportamenti, oltre a mettere a repentaglio la vita e la salute degli altri, vanno considerati in una colpevole ed egoistica prospettiva del futuro: adesso è così, domani si arrangeranno. Il criterio della responsabilità mi dice che devo pensare anche a quelli che verranno dopo di me. Allo stesso modo, nell’amministrazione della famiglia, io non posso pensare semplicemente alla mia attuale situazione, ma un saggio padre di famiglia pensa ai figli e ai nipoti.
Chi pensa semplicemente alla propria situazione dicendo: “Finché sono vivo, mi basta; se non ce n’è più chi verrà dopo si arrangerà” ha una mentalità squilibrata e ingiusta, porta via quello che appartiene ad altri: ha goduto quello che ha trovato procurato da altri e non pensa a dare a chi verrà dopo.
La pienezza del comandamento
Dunque, se questo è l’aspetto negativo del prendere, la pienezza del comandamento sta nel dare. Quei due principi fondamentali della destinazione universale e della proprietà privata, si raccordano nel messaggio evangelico come amore per i poveri. Dio benedice coloro che soccorrono i poveri e disapprova coloro che se ne disinteressano. La Scrittura è piena di insegnamenti del genere. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.
Il Signore Gesù insegna la beatitudine della povertà, che non è miseria, ma è giustamente l’equilibrio nell’uso dei beni terreni. L’amore dei poveri è inconciliabile con lo smodato amore per la ricchezza o con il loro uso egoistico. È chiaro che chi vuole avere tanto per sé non ama i poveri; chi vuole avere non è capace di dare, prende e non dà. È un problema di fondo.
Sto cercando di mostrare come dietro le semplici parole del Decalogo ci sia una mentalità. È lo stile di Dio. Ho detto all’inizio che nel Decalogo Dio rivela se stesso.
Tenendo conto di tutta la Scrittura noi possiamo riconoscere uno stile divino, Dio è così: da ricco si è fatto povero per arricchire gli altri; questo è lo stile di Dio. Se noi siamo suoi alleati è necessario che abbiamo il suo stile, quindi si assimila una mentalità che non è istintiva e naturale, ma è frutto della grazia. Il cuore nuovo rende possibile la pienezza della legge. Chi ama adempie la legge e l’amore ricupera tutte le varie sfumature: l’amore per la vita dell’altro, per la dignità della sua persona, per la sua proprietà.
La tradizione della chiesa ha sempre insistito su questo aspetto.
- Giovanni Crisostomo dice: «Non condividere con i poveri i propri beni è defraudarli e togliere loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo, sono dei poveri».
San Gregorio Magno afferma: «Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro. Più che compiere un atto di carità, adempiamo un dovere di giustizia».
Conoscete padre David Maria Turoldo; da giovane fu incaricato, subito dopo la guerra, di tenere i quaresimali in Duomo a Milano e fece dei discorsi molto forti alla borghesia milanese che con le pellicce andava a sentire i quaresimali in Duomo. Dopo la terza o la quarta meditazione fu accusato di essere comunista. Il cardinal Schüster lo mandò a chiamare. “Padre, ho ricevuto parecchie lettere nelle quali si dice che il predicatore del Duomo insegna dottrine comuniste”. “Lo immaginavo, eminenza – disse Turoldo – ho scritto tutto quello che ho detto”. E gli porse i testi. Schüster lesse e da buon intenditore disse: “Ma questo è s. Ambrogio!”. “Si vede che sarà comunista” fu la risposta. “Ma l’ha detto, padre, che è s. Ambrogio?”. “No, eminenza, ho fatto finta che fossero cose mie, vede che hanno colpito di più?”. “Lo dica, padre, un’altra volta; lo dica che è s. Ambrogio”. Erano tutte frasi di s. Ambrogio contro i ricchi del suo tempo.
Ma se uno fa una lezione citando s. Ambrogio sono cose vecchie, se le ha dette lui vanno bene, ma vanno bene per il quarto secolo. Se invece tu fai finta di nulla e le dici con una certa enfasi come se fossero tue – e le dici ai signori di oggi che riempiono la cattedrale – si sentono offesi. “Ma che cosa sta dicendo questo? Questo non è un discorso cristiano!”. Eh sì invece, è proprio cristiano. Il discorso cristiano di fondo è la carità, è la condivisione.
Le opere di misericordia che la tradizione ci ha insegnato sono le azioni caritatevoli con cui soccorriamo il prossimo nelle necessità corporali e spirituali. Condividere i beni, istruire, consigliare, consolare, confortare, sono opere di misericordia spirituale come perdonare e sopportare con pazienza; come dare da mangiare, dare il vestito, dare accoglienza, dare rispetto e cura.
La carità è la condivisione dei beni spirituali e materiali. Dal non prendere – via esclusa come negativa, portatrice di morte – restano tutte le altre vie ed escludendo la via del prendere agli altri, restano tutte le vie del dare agli altri quello che hai, quello che è tuo anche come bene spirituale.
Fin dall’Antico Testamento ci sono indicazioni di questo genere; abbiamo nel Deuteronomio espressioni attentissime ai poveri: il divieto di prestare denaro a interesse, di trattenere il pegno, l’obbligo di dare la decima, il 10% del proprio guadagno ai poveri, di pagare ogni giorno il salario al lavoratore giornaliero perché mangia ogni giorno, il diritto di racimolare e spigolare nel campo e nella vigna. Sono piccolezze, ma importantissime: non ripassare due volte nella mietitura e nella vendemmia. Sicuramente lasci indietro delle spighe e dei grappoli; sono dei poveri, lasciaglieli. Hai avuto un buono raccolto? Lascia qualcosa per chi non ha niente. È l’ottica della generosità con cui il Signore si esprime nelle piccole cose:
Mt 25,40In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.
Il messia, re glorioso della fine dei tempi, si identifica con i più piccoli, con i poveri; è lo stile dell’alleanza di un Dio generoso che non prende, ma dà fino a dare se stesso.
Dicevamo che la castità è l’integrazione della persona capace di fare dono di sé; ebbene, anche nel confronto dei beni il criterio è sempre quello del dono. Il Decalogo si basa su questa idea: tu hai ricevuto un dono, diventa soggetto di dono. Questo è lo stile di Dio e noi siamo alleati di un Dio così per diventare anche noi come lui.
VIII. “Non dire falsa testimonianza”
Gli ultimi tre comandamenti del Decalogo sono caratterizzati dal riferimento al prossimo. Nella formulazione catechistica il riferimento al prossimo è stato omesso perché si è voluto ridurre all’essenziale l’elenco; seguendo però la formulazione biblica, sia nell’Esodo sia nel Deuteronomio, troviamo tre precisazioni:
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo. Non bramerai la casa del tuo prossimo, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo”.
Lette di seguito, queste parole ci fanno notare una insistenza sulla parola “prossimo” che nel nostro linguaggio è diventata un po’ tecnica. Nella lingua originale del Decalogo, cioè l’ebraico, si adopera la parola “amico”, un termine che non ha la valenza affettiva del nostro vocabolo amico, ma indica piuttosto il socio, il collega, il compaesano, quello che vive nel tuo ambiente, il vicino di casa. Nelle traduzioni greche e latine, e poi nelle lingue moderne, si è scelto infatti di adoperare il concetto di “vicino”.
Il prossimo
“Prossimo” è semplicemente una forma latineggiante di superlativo: prope vuol dire vicino; come avverbio proxime è il superlativo, cioè vicinissimo. Per essere corretti nell’uso della lingua non dovremmo quindi dire “il più prossimo”, perché è come “il più migliore”. O si dice “il più vicino” o si dice “il prossimo”; la comparazione è già inserita nella forma linguistica. Quindi il prossimo è colui che ti sta vicino, non colui che ti è simpatico, colui che ti è affine, ma colui con cui condividi la vita, cioè le persone che incontri, che appartengono al tuo stesso ambiente.
Oggi, noi con i nostri mezzi di comunicazione, abbiamo la facilità di vedere e sentire persone che sono dall’altra parte della terra, apprendiamo le notizie velocemente e conosciamo personaggi con cui non abbiamo mai avuto a che fare. Pensate tutti i personaggi della politica, dello spettacolo, della musica, dello sport; li vediamo in televisione, al cinema, sui rotocalchi e abbiamo l’impressione di conoscerli. Di fatto però non fanno parte della nostra vita, non sono il prossimo.
L’uomo antico, con altri mezzi di comunicazione, vive a contatto con poche persone e quindi si crea un circolo abbastanza chiuso. “I nostri” sono quelli del nostro paese, della nostra tribù, poi ci sono gli altri.
Queste distinzioni durano anche nell’epoca della comunicazione di massa per cui ognuno di noi ha un ambiente di appartenenza e sente “i suoi” come quelli che appartengono a quell’ambiente, alla propria nazione e distingue quelli della sua nazione rispetto agli estranei. Poi si distingue anche in base alla religione, in base alla comunità religiosa, si distingue per diocesi, per parrocchia. Ci sono tanti ambienti, piccole comunità che diventano il prossimo; gli altri sono estranei, sono quelli di fuori.
Dunque, l’insistenza degli ultimi tre precetti sul prossimo sta ad attirare l’attenzione sulla necessità di relazioni buone con quelli vicini.
Mentre i precedenti tre precetti erano di tipo universale, in difesa della vita, del matrimonio, della proprietà, gli altri tre riprendono questi precetti generali applicandoli a situazioni più concrete e vicine. Il discorso, intende dire quindi il Decalogo, non è semplicemente generale, teorico, ma è molto concreto, pratico: riguarda te e i tuoi vicini di casa, quelli che fanno parte della tua famiglia, con cui tu abitualmente entri in contatto.
— «Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo» è un precetto che vieta la testimonianza falsa nel processo e quindi un intervento giudiziario che porti alla condanna di un giusto, perché – se la testimonianza è falsa – significa che l’accusato è innocente. Non accusare quindi un innocente, causandone la morte.
— «Non desidererai la moglie del tuo prossimo» è il primo passo per non commettere adulterio, perché è la moglie del tuo vicino di casa che puoi guardare con desiderio ed è quella l’occasione che ti può portare ad essere adultero.
— «Non desiderare la casa del tuo prossimo», cioè del tuo vicino, perché è quella l’occasione per rubare la casa, il campo, lo schiavo, la schiava, il bue, l’asino, le varie cose. Dal desiderio nasce l’adulterio, nasce il furto.
Quindi le ultime norme del Decalogo insistono sulla attenzione vicina, alle piccole questioni quotidiane che riguardano proprio il tuo ambiente, dove vivi.
Il rifiuto della verità è rifiuto di Dio
L’ottavo comandamento, parlando in modo specifico di falsa testimonianza, proibisce di falsare la verità nelle relazioni con gli altri ed è anzitutto un precetto che riguarda la parola. Evocare la testimonianza serve per richiamare il processo e quindi il pericolo di danno serio che la parola falsa può arrecare al prossimo.
Ribadiamo continuamente che ogni precetto è inserito nel contesto dell’alleanza: Io sono il Signore tuo Dio che ti ho liberato, perciò tu non sarai falso, non dirai il falso. È una conseguenza del fatto che io sono il tuo Dio; Dio è la verità, Dio vuole la verità. Le offese alla verità costituiscono quindi un rifiuto di Dio stesso, sono una profonda infedeltà al Dio dell’alleanza, scalzano le basi del patto, perché Dio è fedele e vero e io non posso essere suo alleato se non condivido il suo stile.
Ogni comandamento può essere rivisitato in termini di stile di comportamento, ovvero di mentalità. Non si tratta semplicemente di elencare quello che non si può fare, ma di capire qual è la mentalità divina che soggiace al comando in modo tale da diventare imitatori di Dio quali figli carissimi.
Nell’Antico Testamento Dio si presenta come vero in quanto mantiene quello che dice, molte volte, infatti, nelle nostre traduzioni italiane, adoperiamo la parola fedeltà mentre nel corrispondente latino troviamo veritas. “Veritas Domini manet in Aeternum”: in italiano diciamo: “La fedeltà del Signore dura per sempre”. La parola veritas è resa con fedeltà.
Il termine ebraico “emunàh” indica la solidità di Dio: è la qualità di colui che è “amen”, cioè solido, fondato, stabile, resistente. Dio è vero perché è solido, difatti noi sottolineiamo la realtà con l’aggettivo “vero”. Questo è un vero uomo! Che cosa intendiamo? Che è uomo, uomo nella pienezza del termine, dimostra veramente l’umanità. Quindi la verità di Dio è quella di essere vero Dio, veramente Dio, lo è proprio, lo è e lo fa, è solido, garantisce in modo sicuro. La sua fedeltà dura per sempre, il suo amore per noi è forte, parallelo, la sua fedeltà è permanente.
Nel Nuovo Testamento Gesù si presenta come “la verità”; il Figlio fatto uomo è la verità. Soprattutto nel vangelo secondo Giovanni si ribadisce questa idea e in Giovanni il concetto di verità corrisponde a rivelazione. Gesù è la rivelazione del Padre, l’uomo Gesù rende visibile l’invisibile; l’uomo Gesù dice le parole di Dio e rende ascoltabile l’inaudito, quel che non si può vedere, quel che non si può ascoltare, è reso visibile e ascoltabile dall’uomo Gesù. In questo senso egli è la verità.
In greco la parola verità «avlh,qeia» “a-létheia” deriva dalla radice del verbo nascondere con l’aggiunta della alfa privativa; verità è quindi “non nascondimento”, cioè rivelazione.
Gesù è la verità perché non nasconde Dio, ma lo fa conoscere. Il Verbo fatto carne è pieno di grazia e di verità: la grazia è il dono.
In che cosa consiste il dono? Nella verità, cioè nella rivelazione. Il Verbo fatto carne è la parola di Dio che comunica come dono la rivelazione divina, fa conoscere pienamente Dio.
Il Signore Gesù comunica ai suoi discepoli lo Spirito della verità; lo Spirito Santo è lo Spirito della verità, è lo Spirito della rivelazione, è lo Spirito di Gesù che continua l’opera e guida i discepoli alla verità tutta intera.
Vi accorgete come attraverso qualche citazione abbiamo ripercorso tutta la storia della salvezza mostrando come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo siano strettamente connessi all’idea di verità: sono persone vere che comunicano veramente quello che sono.
Allora sia nella tradizione dell’Antico Testamento, sia nella pienezza della rivelazione cristiana, l’atteggiamento dell’alleato di Dio non può essere altro che vero. La rettitudine dell’agire e del parlare viene chiamato veracità, sincerità, franchezza. È l’atteggiamento che consiste nel mostrarsi veri, nel senso che l’esterno corrisponde all’interno e la sincerità è l’affermazione del vero attraverso le proprie parole, quindi rifuggendo la doppiezza, la simulazione, l’ipocrisia. La verità di Dio chiede la verità del nostro essere, cioè la coerenza tra quello che è e quello che dico, tra quello che sono dentro, che sento, che penso e quello che mostro fuori.
La falsità
L’ottavo comandamento indica come strada negativa la falsità, l’incoerenza tra il dentro e il fuori, fra ciò che è e ciò che dico. Le offese alla verità, dunque, possono essere molteplici. La falsa testimonianza nel processo diventa una affermazione contraria alla verità fatta pubblicamente; fatta davanti a un tribunale diventa ancora più colpevole e fatta sotto giuramento diventa spergiuro. È la situazione più grave e pericolosa, dove affermare qualche cosa di contrario alla verità rovina il prossimo.
Oltre al precetto del Decalogo, così semplice ed essenziale, possiamo trovare altri passi biblici un po’ più espliciti – ad esempio in Esodo 23, cioè all’interno del codice dell’alleanza – dove i primi versetti confermano questi concetti:
Es 23,1Non spargerai false dicerie; non presterai mano al colpevole per essere testimone in favore di un’ingiustizia. 2Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo per deviare verso la maggioranza, per falsare la giustizia.
È un testo arcaico, fra i più primitivi della legislazione israelita e vedete che il problema di andare dietro alla maggioranza, fare da pecoroni dietro alla massa, è un problema vecchio come il mondo. Per paura di prendere posizione si può affermare il falso. Il codice dell’alleanza lo vieta in modo deciso. Anche il libro del Deuteronomio al capitolo 19 ha un paragrafo proprio sui testimoni ed è un teso importante e famoso citato molte volte nel Nuovo Testamento.
Dt 19,15Un solo testimonio non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato;
Uno solo non basta.
qualunque peccato questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni.
Siccome uno solo può essere falso, due o tre accrescono l’attendibilità. La storia ha però poi dimostrato come anche due o tre possono essere corrotti: testimoni comperati, uomini iniqui che vengono comperati e usati ma, essendo in numero sufficiente, possono rovinare una persona, come capitò a Nabot di Izreel, o mettere in serio pericolo una innocente come nel caso di Susanna (Dn 13).
16Qualora un testimonio iniquo si alzi contro qualcuno per accusarlo di ribellione, 17i due uomini fra i quali ha luogo la causa compariranno davanti al Signore, davanti ai sacerdoti e ai giudici in carica in quei giorni. 18I giudici indagheranno con diligenza e, se quel testimonio risulta falso perché ha deposto il falso contro il suo fratello 19farete a lui quello che egli aveva pensato di fare al suo fratello. Così estirperai il male di mezzo a te.
Anche nel processo contro Gesù si alzano falsi testimoni che sono stati prezzolati proprio per portare una accusa pericolosa: «Lo abbiamo sentito dire che vuole distruggere il tempio: “Io distruggerò questo tempio”». Era più o meno così quello che Gesù aveva detto, ma il senso era ben diverso: «Distruggete questo tempio e io lo riedificherò». Riportano la sua parola cambiandola: “Ha detto che vuole distruggere il tempio” ed è un gradasso al punto da dire che in tre giorni lo ricostruisce. Il punto pericoloso è però l’intenzione di distruggere il tempio. Non è vero; sono testimoni falsi che hanno manipolato quello che Gesù aveva detto. È una situazione di grave offesa della verità.
Giudizio temerario, maldicenza, calunnia
Situazioni analoghe nel nostro vivere quotidiano si ripresentano senza bisogno di un tribunale, ad esempio il giudizio temerario. Questo si ha quando si ammette come vera, senza un sufficiente fondamento, una colpa morale del prossimo, anche solo con il pensiero: quando non c’è fondamento e si pensa alla colpa dell’altro ritenendolo colpevole; sottolineo “senza fondamento”. Se c’è un fondamento il giudizio non è temerario.
Dal giudizio pensato si passa alla maldicenza, che è il parlar male di qualcuno rivelando difetti e mancanze vere a persone che le ignorano. Qui non è dire il falso, ma è dire il male che è male in se stesso: perché lo dici?
Comprendiamo allora come la moralità delle nostre azioni dipenda molto spesso dall’intenzione. Un conto è parlare male di una persona a chi chiede un consiglio, una informazione per seri motivi e in questo caso dire la verità, anche se brutta, è cosa buona; un conto è parlare male di una persona semplicemente per far sapere del male, per divulgare il male, per creare antipatia e discredito.
C’è poi la calunnia dove invece è un parlar male senza fondamento, dicendo falsità, sapendo di dire falsità. È una affermazione contro la verità per nuocere alla reputazione degli altri.
Altri atteggiamenti falsi sono quelli della adulazione, della lusinga, della doppiezza nel linguaggio. Si dicono cose che non si pensano per far piacere, per adulare, per lisciare una persona, perché se ne vuole un vantaggio. Diventa grave quando una adulazione diventa complice di vizi o di peccati gravi: per paura di rimproverare dico che va bene così e lascio fare. È un modo per diventare conniventi del male. La parola diventa partecipe della azione.
Nella lingua biblica non ci sono due termini per dire fatti e parole, ma un unico vocabolo, “dabar”, indica il fatto e la parola. La parola è un fatto; il parlare è un evento e la coerenza è indispensabile. Ripeto per l’ennesima volta: la coerenza è fra la realtà e la mia parola, fra il mio pensiero e la mia parola. La parola è un crocevia quando non dico quello che è, non dico quello che penso. Sono due aspetti importanti e pericolosi di falsità.
Un altro atteggiamento come offesa alla verità è la millanteria, è l’atteggiamento di chi dice cose non vere per accrescere se stesso. È una parola un po’ strana: millanteria. C’è anche un reato che si chiama “millantato credito”, quando uno attira la stima dicendo grandi qualità di sé che non ci sono. In questo modo io ti ho imbrogliato, ti ho dato delle garanzie che non ci sono. Anche se la parola è strana, il comportamento è molto comune.
Tante volte si cambiano le carte in tavola, si dicono cose non vere, non tanto per imbrogliare l’altro, quanto per accrescere se stessi. Così nelle relazioni i numeri non sono mai veri, crescono sempre. Chiedete a un pescatore quanto era lungo il pesce che ha preso… almeno 20 cm. in più della verità. Bisogna sempre fare la tara. Lo stesso per chi si vanta delle proprie ricchezze. A questo proposito c’è un proverbio ligure interessante che dice: “dinæ e santitæ meitæ da meitæ!”; che tradotto in italiano dice: “denaro e santità, metà della metà”… parole sante!
La menzogna è l’offesa alla verità e consiste nel dire il falso con l’intenzione di ingannare. In questo sta il pericolo della menzogna: ingannare l’altro, indurlo in errore. La menzogna diventa grave quanto più grave è l’errore in cui induco il prossimo. Quindi la menzogna è una autentica violenza fatta all’altro. La mancanza di verità è violenza nei confronti dell’altro, è un danno, tanto è vero che, in ambito morale, si impone il dovere della riparazione. Il pentimento chiede riparazione; come per il furto devi restituire, così per la menzogna devi riparare.
Anche la “semplice” bugia – troppo spesso considerato un peccatuccio veniale relegato nell’ambito della prima infanzia – è falsificazione della verità. Se le conseguenze possono essere molto limitate, come quando la bugia tende ad evitare un rimprovero, possono però essere di grave danno se l’atteggiamento mendace colpevolizza un innocente. Inoltre, radicandosi nella prima età della vita, sono un grave pericolo per l’assuefazione che ne può derivare se non opportunamente e tempestivamente rimproverate e punite.
Con tutto ciò non significa che la verità si debba dire sempre. Non bisogna cambiare la verità, ma non sempre è opportuno dire quello che si sa e quello che si pensa. Questo è un altro aspetto importante. Il rispetto della verità spesso chiede silenzio.
Sapere certe cose di una persona non significa doverle dire; ci sono anzi degli ambiti –come la confessione o una confidenza – in cui la verità conosciuta non deve essere detta, e allora si difende la verità con il silenzio. Non è automatico né necessario dire sempre quello che si pensa. Non sto dicendo che bisogna falsificare il proprio pensiero, ma forse in qualche occasione non conviene dirlo, conviene tacerlo. Dire sempre quello che penso non è automaticamente corretto.
In alcuni casi il mio pensiero è bene che rimanga segreto, che sia tenuto in me. Questo vale per la capacità dei rapporti; capita, ad esempio, in una relazione coniugale. Uno dei due coniugi ha commesso adulterio, è pentito, se ne confessa, chiede perdono. Una raccomandazione saggia è: il coniuge lo sa? No! Bene, non glielo dica. Faccia penitenza, ricuperi, ma non è dicendoglielo che risolve il problema. È un fatto segreto, l’altro non se ne è accorto? Tu sei pentito e ritorni? Ci mettiamo una pietra sopra, sai di avere sbagliato, consideralo un grave errore finito. Dirlo all’altro complica enormemente la vita e fa del male, fa soffrire intensamente e inutilmente.
Quindi il dovere di dire tutto non è assoluto. Anzi! Talvolta una verità non necessaria può rovinare l’amore. Ad esempio: “È vero, non dovevo tradirti; ma adesso che ti ho tradito e mi sono pentito, farei un altro errore, se te lo dicessi, perché rovinerei una relazione, creando sfiducia, senza ottenere alcun risultato positivo, ma solo ulteriore danno”. Allora il parlare chiede saggezza. La linea dell’amore per la verità chiede tuttavia una saggezza equilibrata nel dire bene le cose e nel dire le cose giuste.
Una bella espressione di s. Paolo nella Lettera agli Efesini ci aiuta a chiudere la meditazione.
Ef 4,24rivestite l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. 25Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri.
«Rivestite l’uomo nuovo» che è Cristo, rinnovate l’habitus, l’abitudine fondamentale della vostra vita, rivestite l’uomo nuovo nella santità vera. Anche in questo caso noi dobbiamo parlare di integrazione di personalità matura e unitaria.
La persona falsa è divisa, “schizzata” direbbero i giovani, cioè divisa, usando una terminologia dotta; «sci,zw» (schizo) è un verbo greco che vuol dire scindere, separare, spezzare in due, è una mentalità spezzata, divisa in due parti, dentro e fuori, vero e falso, non so dove stare: è la frantumazione dell’essere. Noi siamo persone integre, intere, omogenee, compatte, limpide, trasparenti, vere, perché abbiamo rivestito Cristo e allora bando alla menzogna.
La teoria si scontra con la realtà perché le nostre comunità, le nostre esperienze di prossimo, sono piene di menzogna, di ipocrisia, di doppiezza, di parole false, se non di maldicenze e di calunnie. C’è da fare un lavoro importante di purificazione; per il rinnovo dell’alleanza è necessario che la parola sia vera, sia lo specchio dell’anima, che in noi parli l’uomo nuovo che è Cristo che abita in noi.
IX. “Non desiderare la donna d’altri” X. “Non desiderare la roba d’altri”
Alla fine del Decalogo troviamo due comandamenti che vanno in profondità nella esperienza della vita di ciascuno; non riguardano semplicemente delle azioni, ma focalizzano la necessità di un atteggiamento, di un modo di essere profondo. Gli ultimi due precetti parlano del desiderio indicando con ciò una tensione della persona umana verso qualche cosa di esterno a sé, ma questo desiderio è difficilmente controllabile, non è una semplice azione da fare o da non fare.
Il Decalogo si chiude mettendo in evidenza come l’adesione di alleanza al Signore comporti una adesione del cuore. Prima delle opere c’è il cuore, l’intenzione, la volontà.
Due redazioni antiche… più una terza
Anche se si ripete per due volte il verbo, si tratta dell’ultimo comandamento; di fatto il comando è unico; nella redazione dell’Esodo infatti c’è una differenza sostanziale rispetto alla redazione del Deuteronomio.
Es 20,
17Non desiderare la casa del tuo prossimo.
Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”.
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Dt 5
21Non desiderare la moglie del tuo prossimo.
Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo.
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L’Esodo mette prima la casa, poi specifica tutti quelli che fanno parte della casa: la moglie, lo schiavo, la schiava, il bue, l’asino e tutte le altre cose. Il Deuteronomio invece isola dapprima la moglie e poi mette la casa, aggiunge il campo e ripete gli altri elementi costitutivi della casa. È probabile che la forma più arcaica sia quella del Deuteronomio, come abbiamo già visto a proposito del sabato, perché distingue la moglie come una realtà personale che aderisce al padrone di casa con la dignità della persona e con la relazione d’amore, difendendo l’istituto familiare come fondamentale.
La redazione dell’Esodo dà invece l’impressione di una formulazione più sistematica e teologica posteriore. Come ha cercato il modello del riposo nella creazione, così mette la casa all’inizio, non intendendola come l’edificio in cui uno abita, ma come l’insieme delle persone e delle relazioni che costituiscono la vita. La tua casa è il tuo ambiente vitale di cui fanno parte la moglie, lo schiavo, il bue e l’asino e tutte le altre cose.
Nella formulazione biblica bisogna quindi riconoscere che il comando del desiderio è il decimo comandamento perché il secondo è “Non ti farai immagine alcuna”. Verrebbero quindi sfasati tutti i numeri con cui noi abitualmente indichiamo i comandamenti, ma – come si è detto – la nostra impostazione catechistica dipende da s. Agostino che ha impostato la catechesi di quelli che si preparavano al battesimo sui dieci comandamenti e ha ritenuto opportuno togliere il precetto delle immagini per non creare problemi, dal momento che ormai nella tradizione cristiana si adoperavano le immagini. Togliendo però quel precetto restavano nove e quindi si è presa l’impostazione del Deuteronomio; sdoppiando l’ultimo comandamento il nono diventa “Non desiderare la donna d’altri”, il decimo in formulazione generica “Non desiderare la roba d’altri”.
Questa distinzione però si giustifica anche all’interno del testo biblico perché, come abbiamo osservato, dopo il precetto positivo: “Onora il padre e la madre”, troviamo tre precetti sintetici più tre precetti che evocano il tuo prossimo e possiamo allora notare come questi tre corrispondano agli altri tre.
- “Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo” è strettamente legato a “non ucciderai” perché testimoniare il falso in processo contro un innocente significa condannarlo a morte ed è questo che non si vuole. La parola può uccidere più che la spada.
- “Non desidererai la moglie del tuo prossimo” è strettamente legato a “Non commetterai adulterio”, perché partendo dal desiderio della moglie altrui si può arrivare all’adulterio consumato. Infine:
- “Non desidererai la casa del tuo prossimo” è strettamente legato a “Non ruberai” perché il desiderio delle cose porta facilmente alla sottrazione, al furto.
Il desiderio e la concupiscenza
Noi tuttavia consideriamo in modo unitario gli ultimi due comandamenti, cercando di sviluppare una riflessione sul desiderio: da una parte in direzione negativa, dall’altra in direzione positiva. Il desiderio infatti può essere buono o cattivo.
La nostra vita è un desiderio, vivere significa desiderare, cioè andare verso, tendere, aspirare, anelare. La nostra vita è piena di desideri e quando non c’è più desiderio non c’è più vita, quando non si ha più voglia di vivere, la vita è solo biologica. Nel linguaggio quotidiano il desiderio corrisponde alla voglia: aver voglia di qualcosa, non averne voglia, avere delle cattive voglie. È il linguaggio della volontà, è la radice della nostra personalità e della nostra spiritualità. La volontà è determinante nella moralità delle azioni. Perché una azione sia cattiva io devo volerla, perché sia buona io devo volerla.
Ci sono delle cose che sono in sé buone o cattive, ma io faccio del bene se voglio farlo, faccio del male se voglio farlo; la mia volontà è indispensabile. Se non volevo non sono responsabile né colpevole né meritevole: non volevo, ho fatto una cosa senza volere. Non ha valore morale. Quindi volere è decisivo, ma volere che cosa? Il cattivo desiderio, cioè il desiderare cose cattive, desiderare malamente cose buone, desiderare con animo cattivo qualcosa, nella tradizione latina si chiama concupiscenza.
La terminologia è presa dalla Prima Lettera di Giovanni.
1Gv 2,16perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. 17E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!
- Giovanni distingue quindi tre tipi di desiderio smodato e sbagliato: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita.
Secondo la tradizione catechistica cattolica, fortemente debitrice a s. Agostino, il nono comandamento proibisce la concupiscenza della carne, il decimo proibisce la concupiscenza degli occhi che riguarda i beni altrui.
Che cos’è la concupiscenza? Un forte desiderio, un moto dell’appetito sensibile – come dicevano gli antichi filosofi – contrario alla ragione. È un elemento passionale, legato all’istinto, alle voglie irrazionali che appartengono al nostro carattere, alla nostra personalità rovinata dal peccato.
- Paolo adopera un altro termine per indicare questo stato della persona e parla di “carne” che contrappone allo spirito. I desideri della carne sono contrari a quelli dello spirito.
Non leghiamo però il concetto di carne semplicemente alla corporeità e alla sessualità; i desideri della carne sono gli istinti bassi, volgari, negativi, che ognuno prova dentro di sé. “Mi fai venire un nervoso che ti ammazzerei”, è un istinto basso e volgare: ammazzarti. Non significa che io sia omicida, però l’istinto omicida qualche volta emerge in me.
Purtroppo le cronache ci insegnano che non educando la persona, e venendo meno il timor di Dio, questo istinto omicida si scatena per futili motivi e le cronache sono sempre più piene di episodi dove persone che appartengono allo stesso ambiente si uccidono per banalità. La settimana scorsa leggevo di due cognati che hanno litigato per la posizione del barbeque in giardino e, litigando, uno dei due ha tirato fuori il coltello e ha ammazzato l’altro. Sono cose dell’istinto umano. Il giornalista scriveva che c’era già della ruggine, è possibile; vivendo nella stessa casa due cognati avranno avuto dei problemi, lo capiamo facilmente. Quali problemi? Le banalità di una vita insieme, le banalità che abbiamo anche noi con le persone con le quali viviamo.
Ma la concupiscenza, la carne, se non è educata e formata esplode, esplode ad esempio nella violenza, esplode nella dimensione sessuale. Il bombardamento di messaggi erotici della nostra cultura fomenta l’istinto sessuale in senso basso e volgare e – non educandolo né formandolo – si creano delle tensioni dei desideri, degli appetiti contrari alla ragione.
Molte persone giocano su questi istinti e li sfruttano economicamente. Dietro al mondo della prostituzione o della pornografia c’è un enorme giro di affari, quindi significa che alcune persone approfittano di questi istinti per guadagnare e usano persone e mezzi della tecnologia moderna per fomentare la concupiscenza, guadagnandoci.
È un turpe giro di peccato alla cui radice c’è la bramosia: qualcuno vuole fare i soldi e per avidità di soldi usa le voglie sessuali degli altri. È una bramosia che aiuta la bramosia e all’interno di questo mondo, per un motivo o per l’atro, ci scappa facilmente il morto, perché la brama di potere, di piacere, si scontra con quella degli altri e diventa brama di soppressione.
È una situazione tragica di una umanità estremamente vicina a noi e tutto questo – anche se è grande, grave e dannoso – parte da piccole cose, dai piccoli desideri infantili, perché quei bambini che vediamo all’asilo sono quelli che fra vent’anni potranno essere grandi responsabili di tutta questa corruzione e il loro desiderio, non essendo guidato e formato, purificato e redento, sfocia in situazioni tragicamente negative.
La purezza del cuore
Nel linguaggio biblico la sede della personalità morale è il cuore. Il punto decisivo è il cuore, è la sede ed è la fonte della moralità. Quando Gesù contesta la tradizione farisaica che dà grande peso alla purificazione della mani e della stoviglie, soffermandosi troppo sull’esterno, Gesù insegna con l’autorità di Dio che il problema è interno.
Non basta lavare l’esterno del bicchiere: il pericolo è lo sporco che c’è dentro il bicchiere. Non è quello che entra nella bocca che sporca l’uomo, ma è quello che esce dal cuore che lo contamina. Notate come l’immagine cambi prospettiva. Prima ha seguito uno schema da apparato digerente: mettere qualcosa in bocca e mandarlo giù nello stomaco, se è sporco fa male. È l’immagine della religiosità farisaica: dall’esterno puoi prendere delle contaminazioni. Poi Gesù capovolge lo schema e parla di cuore: “dal cuore esce”. Non è il sistema circolatorio che gli interessa, è un altro discorso: il cuore è utilizzato in senso metaforico per indicare la profondità della persona, l’io personale, cosciente di sé. Dal tuo intimo esce qualcosa ed esce proprio quello che sei; escono i tuoi desideri reconditi.
MC 7,15 non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”. […] 17Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, 19perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?”. Dichiarava così mondi tutti gli alimenti. 20Quindi soggiunse: “Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. 21Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, 22adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stupidità.
La stupidità è la peggiore di tutte.
23Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo”.
Il brano evangelico di Marco è quello in cui Gesù contesta la mentalità puritana dei farisei, sottolineando la necessità di purificare il cuore.
Gli ultimi comandamenti riguardano infatti la purezza di cuore, indicano l’obiettivo di un cuore nuovo e purificato.
«Non desiderare la donna d’altri» non è un precetto solo per i maschi, come se le donne avessero un comandamento di meno. È chiaro che nella formulazione sintetica del Decalogo – tenendo conto anche della mentalità arcaica in cui è stato formulato – il discorso è unilaterale, ma vuole essere onnicomprensivo, per cui indica l’atteggiamento di un desiderio che viola la famiglia altrui. È il desiderio di relazione con una persona già legata da una relazione stabile e permanente e quindi mette a fuoco il problema della impurità ovvero la virtù della purezza.
La purezza di cuore che Gesù esalta nelle beatitudini è la capacità di rapportarsi agli altri, alle persone anche dell’altro sesso, con un equilibrio sereno, modesto, discreto, non frutto di un appetito, di un moto sensibile non dominato, ma è il risultato di una formazione, di una maturazione. La purezza non si ha istintivamente, si ottiene attraverso una maturazione del cuore ed è importante questa dinamica formativa che libera dalla concupiscenza e dai desideri disordinati, che custodisce i sensi educandoli a ciò che è bene e correggendo ciò che è male.
Mi è piaciuta una espressione adoperata da una madre nei confronti dei figli come formazione all’uso di Internet. L’espressione era elementare, ma di una ricchezza eccezionale: «Non sporcarti gli occhi». Sentendo che c’è di tutto, la raccomandazione saggia è: non sporcarti gli occhi perché la concupiscenza della carne è strettamente congiunta con la concupiscenza degli occhi e lo sguardo, il vedere, produce il desiderio e crea turbamenti. Siamo quindi responsabili della nostra formazione. Molte degenerazioni sono il risultato finale di tanti piccoli passi che sembravano sciocchezze di poco conto, ma a forza di assommare sciocchezze, si arriva a delle grosse questioni.
L’immagine della purità di cuore è lo sguardo limpido, il pudore come atteggiamento virtuoso che custodisce il mistero delle persone e del loro amore.
La cupidigia
E così il decimo comandamento, che mette l’attenzione sulle cose concrete, verte sulla cupidigia che porta a desiderare cose che riteniamo piacevoli e che non abbiamo. Quindi il comandamento proibisce l’avidità, il desiderio di appropriarsi senza misura dei beni terreni; questa è una cupidigia smodata, sregolata.
È il principio del capitalismo e noi ne siamo vittime in tanti modi. Pensate allo sviluppo di tutti i marchingegni elettronici che ci aiutano a vivere con delle capacità immense di contenere cose. Ormai i computer devono avere delle memorie gigantesche; il registratore può arrivare a 575 ore (leggo scritto qui); se riuscisse ad arrivare a 576 sarebbero 24 giorni interi di registrazione; peccato… per una sola ora non completo un giorno. Però le batterie no mi durano più di nove ore… è proprio un problema!!!
Ma quando mai registreremo così tanto tutto assieme! Un iPod, strumento che serve per sentire musica in giro, può contenere milioni di canzoni; ma sapete quanto tempo ci vuole per sentire un milione di canzoni? E tu hai voglia di sentire tutte quelle canzoni? Però hai l’idea che in quell’oggetto ci stanno tante canzoni… nel mio ce ne stanno due milioni! Allora lo voglio anch’io, perché un milione di canzoni è poco. Così ho la scelta.
Nel computer ho tutto. È un discorso che faccio spesso agli studenti i quali hanno come ritornello: in Internet c’è tutto. Ma attenzione a non confondere quello che c’è in Internet e quello che c’è nella tua testa. Il fatto che tu possa trovare tutto, non significa che automaticamente tutto diventa tuo ed entra nella tua testa. Tu trovi dei corsi interi trascritti e riportati, ma per leggerli ci vogliono delle settimane e per capirli, assimilarli, farli tuoi, ci vogliono dei mesi. Ti sei accontentato di prendere, tagliare, copiare e incollare, metterlo nel tuo computer e… ce l’ho. Hai tutto come prima, non hai nulla. È come avere in casa una enorme biblioteca, ma non è che avendola ne conosci il contenuto.
I nostri sistemi stanno fomentando una concupiscenza del possesso enorme: avere tutto. Poi non ne fai niente, ma ormai in supporti piccoli possiamo mettere intere enciclopedie e abbiamo la soddisfazione di avere tutto. Ma quante volte abbiamo usato l’enciclopedia? Abbiamo letto qualche cosina, eppure l’avidità di possedere tutto c’è, accorgiamocene in queste piccole cose che non sono colpevoli, ma sono segni di un istinto avido di possesso.
L’invidia
L’altro grande elemento negativo che gli ultimi comandamenti indicano come sbagliato e dannoso è l’invidia. Desiderare qualcosa dell’altro significa invidiare l’altro. L’invidia è un vizio capitale ed è un peccato diabolico, proprio nel senso che divide, rovina la vita comunitaria. L’invidia è una pianta tremenda, una erbaccia che si radica in tutti i nostri giardini, negli orti di casa e rovina la nostra persona e le nostre relazioni.
Penso che l’invidia sia un peccato “autopunente”, perché l’invidioso non riesce mai a raggiungere ciò che desidera; il suo è infatti un desiderio senza fine, mai soddisfatto, e quando avrà molto, altri avranno sempre più di lui. La sua è quindi una battaglia persa e la sofferenza che gli viene dal suo carattere è continua, implacabile, tremenda. Forse per tutta questa sua tribolazione meriterebbe…uno sconto di pena: ha già tanto sofferto, poveretto!
L’invidia nella tradizione classica è definita come la tristezza per il bene altrui. L’invidia è una tristezza ed è una morte del cuore; coltivare l’invidia ammazza la persona, produce morte interiore, ammazza la spiritualità, svuota l’anima. Prima ancora di essere desiderio smodato di appropriarsi di quello che gli altri hanno è tristezza perché ce l’hanno. È la tristezza per il bene altrui; ci soffro perché l’altro viene lodato, ci soffro perché l’altro sa fare qualcosa più di me.
Strettamente unita all’orgoglio, l’invidia in quanto tristezza è un rifiuto della carità, è un grave peccato contro la carità perché io non posso voler bene se sono invidioso.
E allora la benevolenza e l’umiltà sono gli antidoti, sono gli atteggiamenti contrari che curano questa malattia del cuore, ma per curare in profondità il cuore bisogna accendere il santo desiderio, bisogna maturare un desiderio ardente del bello, del buono, del vero, del grande, di ciò che è eterno, bisogna desiderare Dio.
Perdersi nell’avidità e nell’invidia fa dimenticare Dio; la cura per questi atteggiamenti tristi, che intristiscono la nostra vita comunitaria, è l’apertura alla carità di Dio, alla ricerca del sommo bene. Il desiderio della vera felicità libera l’uomo dallo smodato attaccamento ai beni di questo mondo. Il desiderio di vedere Dio, di godere Dio, di raggiungere la pienezza della felicità purifica il cuore; questo desiderio è dono dello Spirito, ma è frutto della nostra collaborazione, della nostra formazione.
Tendiamo al Signore, cerchiamo il Signore con tutto il cuore; è un desiderio anche questo ed è il cuore, il centro della nostra vita spirituale: il desiderio di Dio, il desiderio di essere alleati suoi, alleati simili a lui, discepoli che diventano figli e gli assomigliano.
Concludo con una bella frase di s. Agostino, tratta dall’ultimo libro de La Città di Dio, quando sviluppa proprio il tema del desiderio e della tensione verso l’Assoluto nella piena comunione con Dio.
Là sarà la vera gloria, dove nessuno verrà lodato per sbaglio o per adulazione. Il vero onore che non sarà rifiutato a nessuno che ne sia degno, ma non sarà riconosciuto a nessuno che ne sia indegno. Né d’altra parte questi potrebbe pretenderlo, perché vi sarà ammesso solo chi è degno. Vi sarà la vera pace, dove nessuno subirà avversità da parte di se stesso o da parte di altri. Premio della virtù sarà colui che diede la virtù e che promise se stesso come ciò di cui non può esservi nulla di migliore e di più grande. Sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Ancora questo indicano le parole dell’apostolo, perché Dio sia tutto in tutti. Egli sarà il fine di tutti i nostri desideri, contemplato senza fine, amato senza fastidio, lodato senza stanchezza. Questo dono, questo affetto, questo atto sarà certamente comune a tutti come la stessa vita eterna.
Accettazione dell’Alleanza
Esodo 24: antico rito dell’alleanza
Il Signore si è rivelato al suo popolo, ha parlato a Mosè e ha proposto una alleanza.
Es 19,5 Se vorrete ascoltare la mia parola e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli,
Il popolo vuole, accetta la proposta di Dio e così Mosè stipula una alleanza che unisca Dio al suo popolo; è una autentica celebrazione nuziale che unisce Israele al Signore. È questo il modello della nostra vita nell’alleanza di Dio; inseriti nella chiesa di Cristo noi viviamo come popolo della nuova alleanza che vuole ascoltare quella parola.
Le Dieci Parole che ci hanno accompagnato nella nostra riflessione sono la parola con cui Dio rivela se stesso, il proprio stile, la propria mentalità e chiede ai fedeli di accogliere quello stile e quella mentalità. Offre e dona la possibilità di diventare una cosa sola con lui; quindi non impone degli obblighi, ma libera dalla corruzione del peccato e offre una capacità di una vita nuova.
Nel libro dell’Esodo il Decalogo al capitolo 20 – strettamente unito al Codice dell’alleanza che contiene tanti precetti particolari – è circondato da due racconti. Al cap. 19 troviamo la promessa dell’alleanza e al cap. 24 la stipulazione dell’alleanza.
Il rito di stipulazione dell’alleanza
Avevamo iniziato il nostro percorso meditando sul cap. 19, ora lo concludiamo meditando sul cap. 24.
Es 24,3Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme.
Le parole del Signore sono il Decalogo. Mosè ha accolto questa parola molteplice e unitaria e la trasmette al popolo.
Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Tutti i comandi che ha dati il Signore, noi li eseguiremo!”.
La proposta viene accolta. Noi entriamo in questo discorso dell’alleanza sentendoci impegnati in prima persona; quello che ci è stato proposto noi lo eseguiremo. Lo accettiamo come proposta valida e abbiamo intenzione di farlo diventare vita. Questo è l’atteggiamento di base per la stipulazione dell’alleanza.
4Mosè scrisse tutte le parole del Signore,
Prima c’è una trasmissione orale, c’è un ascolto che diventa parola e quindi scrittura, documento che resti per la nuove generazioni. Da una promessa a voce si passa a un documento scritto.
poi si alzò di buon mattino e costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. 5Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.
Di buon mattino Mosè prepara il rito dell’alleanza e costruisce un altare. Secondo lo schema antico l’altare è il luogo dove avvengono i sacrifici, dove vengono bruciate le vittime. Questo altare è fatto di dodici pietre non toccate dal ferro, perché – secondo l’antica mentalità – il ferro contamina e quindi la pietra deve essere naturale, non scalpellata, adattata e quindi si tratta praticamente di un mucchio di grosse pietre, dodici, come le tribù di Israele. Eppure l’altare rappresenta il Signore, è lui che ha messo insieme quelle persone costituendole come un popolo. Ai piedi del monte, nella parte bassa, c’è quindi questo monumento che rappresenta il Signore il quale si è manifestato sulla cima del monte. L‘altare richiama la presenza di Dio nell’ambiente ordinario, ai piedi del monte, laddove c’è il popolo, ma richiama anche la presenza di colui che è in alto, sulla vetta, lontano, non visibile dal popolo.
Alcuni giovani, rappresentanti degli israeliti, nuove generazioni, speranze del domani, preparano gli olocausti: sono cioè sacrifici di animali che vengono interamente bruciati come offerta totale a Dio. Poi vengono preparati i sacrifici di comunione: sono cioè animali che vengono cucinati e mangiati dal popolo. Sono due tipi di sacrifici diversi.
I sacrifici di comunione mettono in evidenza soprattutto il collegamento; ciò che è offerto a Dio viene mangiato dal popolo in segno di comunione, cioè come prova di una autentica relazione: mangiamo insieme. Condividere il pasto è un segno di alleanza.
6Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare.
La preparazione degli animali per i sacrifici ha comportato la separazione del sangue, quindi, uccidendo gli animali, ne hanno raccolto il sangue. Il sangue è perciò distinto dagli animali e Mosè ha diviso il sangue in due parti; una parte viene versata sopra l’altare, quindi immaginate una scena molto diversa da quella che abbiamo sotto gli occhi noi. È un mucchio di pietre sulle quali sono stati già bruciati e cotti alcuni animali.
Si sono alzati di buon mattino perché c’era da lavorare per tutta la giornata. Pensate che odore di carne bruciata. Quando nell’Antico Testamento si parla di altare non si può pensare alla tovaglia bianca, ai fiori, alle candele; è una realtà completamente diversa. L’altare è il luogo del sacrificio, è il luogo del fuoco e del sangue.
Metà di questo sangue viene versato sull’altare, adesso che la carne è cotta o interamente bruciata e il fuoco è spento. Su queste pietre viene versato il sangue, tanto sangue che impregna tutto l’insieme rendendolo rosso.
7Quindi [Mosè] prese il libro dell’alleanza
È interessante notare che non si parla di tavole, ma di libro. Libro non come lo intendiamo noi, ma come rotolo. È quindi possibile che la prima fase arcaica, in cui Mosè organizzò il gesto simbolico dell’alleanza, comportasse un semplice rotolo. Venivano dall’Egitto, il papiro vi era comune e abbondante, quindi avevano a disposizione un rotolo, un foglio di papiro su cui Mosè, letterato, capace di scrivere e di pensare, esperto nella cultura egiziana e anche di trattati politici, ha steso quel documento di fondo. Mosè prese il libro dell’alleanza…
e lo lesse alla presenza del popolo.
Sostanzialmente lesse il Decalogo. “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa si schiavitù. Non avrai altri dei all’infuori di me,,, non desidererai nessuna delle cose del tuo prossimo”. Alla fine di questa lettura tutti assieme…
Dissero: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!”.
Questa è l’accettazione; l’altra parte accetta. Noi diremmo: mette la firma al contratto, ma la prassi antica non prevedeva assolutamente documenti firmati. Un rito liturgico come quello di Mosè era incentrato sul sangue. Metà di quel sangue è stato versato sull’altare e adesso che il popolo ha accettato…
8Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo,
Prese il catino dove c’era l’altra metà del sangue e lo sparse sopra il popolo, sporcando tutti i vestiti di sangue. È molto importante il gesto: metà del sangue sull’altare, metà del sangue sul popolo. Questo significa unione. Il sangue delle vittime unisce l’altare, simbolo di Dio, e il popolo. Mosè asperse il sangue sul popolo…
dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!”.
Ecco il sangue dell’alleanza. L’alleanza che si è realizzata esiste in forza di questo sangue; si è creata fra voi e il Signore una unione di sangue, siete diventati parenti. C’è un legame di sangue e il sangue non è acqua. La simbologia del sangue è molto importante nei popoli primitivi, perché richiama la vita e ancora nel nostro linguaggio – sebbene siamo evoluti e scientificamente esperti – per evocare la parentela diciamo di essere dello stesso sangue. Il sangue indica in molte espressioni il legame familiare, ciò che unisce, è la vita, l’appartenenza ad un gruppo, ad una comunità.
Il simbolo compiuto da Mosè è dunque un vincolo di sangue; il sangue garantisce l’alleanza la quale è basata su tutte queste parole, cioè su tutte le Dieci Parole, perché, come abbiamo già detto, si tratta di un tutto unitario e omogeneo che si tiene perfettamente in relazione. Non si prende qualcosa, ma si prende il tutto, perché nelle varie parti c’è un riferimento alla altre parti in modo tale da avere un organismo unitario. Sulla base di tutte queste parole Dio ha fatto alleanza con il suo popolo.
9Poi Mosè salì con Aronne, Nadab, Abiu e i settanta anziani di Israele.
C’è una delegazione del popolo; gli anziani non sono i vecchi, sono i capi-famiglia. Qualcuno poteva anche essere vecchio, comunque Mosè a quel tempo aveva 80 anni e ha salito e sceso il monte parecchie volte; Aronne ne aveva 84 e aveva appena iniziato la sua collaborazione con il fratello e Mosè aveva ancora davanti 40 anni di lavoro; è arrivato fino a 120, ma … erano altri tempi.
Un simbolo eucaristico
Mosè, Aronne, Nadab, Abiu e i settanta capi famiglia, i rappresentanti ufficiali di Israele salirono sul monte.
10Essi videro il Dio d’Israele: sotto i suoi piedi vi era come un pavimento in lastre di zaffiro, simile in purezza al cielo stesso 11Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano: essi videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero.
Un bell’invito a pranzo, non c’è che dire. Mangiarono e bevvero, fecero un banchetto, sulla cima del monte mangiarono e bevvero. Quei sacrifici di comunione che avevano preparato giù sono andati a mangiarli su. Hanno mangiato e bevuto sulla cima del monte alla presenza di Dio. Questo è un altro simbolo di alleanza: mangiare insieme, mangiare e bere. La comunione di mensa con il Signore, Dio di Israele, costituisce il fondamento iniziale. Sono stati privilegiati questi uomini, Dio non ha steso la mano contro di loro; li ha accolti, li ha accettati e loro hanno accettato la sua parola.
Questo testo pranzo di comunione nella tradizione cristiana è stato spesso letto in chiave eucaristica. È ad esempio la prima lettura nella festa del Corpus Domini. Questo testo è ripreso letteralmente dal Signore Gesù. Quando nell’ultima cena presenta il calice del vino dicendo che è il suo sangue, adopera proprio questa espressione di Mosè: “Questo è il sangue dell’alleanza, questo è il sangue della nuova alleanza, questo è il mio sangue”, non quello di vitelli e di tori. È il mio sangue che istituisce una nuova alleanza. Perché è la sua vita donata che realizza una nuova e piena comunione con il Signore.
Ebrei 9: la nuova alleanza
Il testo di Esodo 24 è stato riletto e interpretato dall’autore della Lettera agli Ebrei al cap. 9 a partire dal v. 15. Lì troviamo una riflessione sul Cristo che sigilla, fonda, inaugura la nuova alleanza con il suo sangue. Il Cristo è mediatore di una nuova alleanza. Quella antica era stata stipulata con la mediazione di Mosè, intermediario tra Dio e il popolo, adesso c’è un altro mediatore. Mosè era il servo, Gesù è il Figlio; Mosè era nella casa, Gesù è sopra la casa e quanto più è importante Gesù – in quanto Figlio di Dio, rispetto a Mosè – tanto più è importante la nuova alleanza di cui egli è mediatore e la sua mediazione si realizza nel proprio sangue.
Il sangue dell’alleanza
Eb 9,15Essendo ormai intervenuta la sua morte per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati possono ricevere l’eredità eterna che è stata promessa.
C’era una promessa, ma non si poteva realizzare perché l’umanità colpevole era incapace di accogliere veramente l’alleanza. La morte del Cristo redime dalle colpe, rende l’umanità capace di accogliere quella promessa che era stata fatta. L’autore gioca poi sulla parola greca che vuol dire alleanza ma anche testamento, tanto è vero che noi parliamo di Antico e Nuovo Testamento intendendo però alleanza.
16Dove infatti c’è un testamento, è necessario che sia accertata la morte del testatore, 17perché un testamento ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive.
Chi ha fatto testamento lascia, promette di lasciare una eredità, ma il possesso della eredità si ottiene solo dopo la morte del testatore. Dio ha fatto testamento lasciando l’eredità eterna al suo popolo, ma è possibile entrare in possesso di questa eredità solo dopo la morte di Dio. Per questo Dio diventa uomo e accetta di morire, di versare il sangue, di dare la vita. Versare il sangue è sinonimo di dare la vita e il sangue, che è la vita, dà vita all’alleanza, al rapporto, dà vitalità, costituisce una relazione.
Così osserva l’autore:
18Per questo neanche la prima alleanza fu inaugurata senza sangue. 19Infatti dopo che tutti i comandamenti furono promulgati a tutto il popolo da Mosè, secondo la legge, questi, preso il sangue dei vitelli e dei capri con acqua, lana scarlatta e issòpo, ne asperse il libro stesso e tutto il popolo, 20dicendo: Questo è il sangue dell’alleanza che Dio ha stabilito per voi. 21Alla stessa maniera asperse con il sangue anche la Tenda [il tabernacolo] e tutti gli arredi del culto. 22Secondo la legge, infatti, quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue e senza spargimento di sangue non esiste perdono.
Bisogna versare il sangue per avere il perdono, bisogna pagare di persona, bisogna dare la vita per poter avere l’alleanza. Questa è l’idea di fondo: una relazione bisogna conquistarsela. Ma non significa che ogni persona deve versare il proprio sangue per conquistare l’alleanza; la bella notizia cristiana è che Dio in persona ha versato il suo sangue per poterti rendere capace di una alleanza nuova.
Senza spargimento di sangue non esiste perdono, ma lo spargimento c’è già stato ed è il massimo possibile. L’unico giusto si è lasciato inchiodare alla croce e ha stabilito la nuova ed eterna alleanza con il dono della sua vita e quella vita rende noi capaci della autentica relazione con il Signore.
È quella la nuova alleanza che noi celebriamo nella eucaristia, sull’altare con il sangue di Cristo, facendo la comunione con quel corpo sacrificato, mangiando e bevendo alla presenza del Signore.
Ogni celebrazione eucaristica è fondazione dell’alleanza, è rinnovamento dell’alleanza e da parte nostra è accoglienza di questa potenza che Dio regala perché noi possiamo essere suoi alleati, suoi amici, suoi congiunti. Con Cristo siamo fratelli di sangue, siamo diventati veramente fratelli, più fratelli che con i nostri congiunti carnali. Ecco perché Gesù chiede di amarlo più del padre, della madre, dei fratelli, dei figli e di tutto il resto, ma nello stesso tempo, chi lo ascolta sul serio diventa per lui fratello, sorella e madre. È una nuova famiglia che si realizza nel sangue di Cristo ed è una unione con Dio che egli ci ha ottenuto più stretta di quella dei vincoli familiari terreni.
Questa è la nuova alleanza che noi abbiamo accolto e continuamente rinnoviamo.
Ancora un versetto importante della Lettera agli Ebrei.
Eb 10,14 Con un’unica oblazione [cioè offerta] egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.
Da una parte si dice che ha reso perfetti in modo totale e permanente; “perfetti” vuol dire capaci di accostarsi a Dio. Nel linguaggio liturgico giudaico la perfezione non è l’assenza di difetti, ma è l’ordinazione sacerdotale, cioè il legame con Dio. Cristo è perfetto in quanto sacerdote nel suo sangue, autentico mediatore fra Dio e l’uomo; reso perfetto divenne causa di salvezza eterna. Ma il sacerdozio di Cristo è comunicato a tutti i fedeli nel battesimo ed è quel sacerdozio comune dei fedeli che abilita ciascuno ad essere in piena comunione con Dio e a fare della propria vita un sacrificio vivente a Dio gradito.
Con una unica offerta, offendo tutto se stesso, il Cristo ha reso perfetti per sempre noi che veniamo santificati. Qualcosa è già avvenuto in modo stabile e definitivo, ma c’è un qualcosa che deve ancora avvenire. Siamo in via di santificazione; da parte sua è già stato fatto tutto, da parte nostra no. C’è ancora un cammino di formazione, di maturazione, di trasformazione della persona, di crescita nell’amore, di risposta totale, di assimilazione dello stile e della mentalità di Dio. Questo processo è ancora in corso, ma siamo già nella condizione di piena unione con il Signore.
Infatti dice:
16Questa è l’alleanza che io stipulerò con loro dopo quei giorni, dice il Signore: io porrò le mie leggi nei loro cuori e le imprimerò nella loro mente,
È la citazione di Geremia 31, quel testo con cui avevamo cominciato il nostro percorso di alleanza. La nuova alleanza è scritta nel cuore; attraverso il sangue di Cristo, la sua presenza nella nostra vita, la grazia sacramentale che continuamente ci è offerta, a noi è data la possibilità di vivere la vita di Dio.
Saremo sempre con il Signore
Questa è la nuova ed eterna alleanza in cui siamo inseriti; non è nostro compito conquistarla o meritarla. A noi sta la docilità nel lasciarci santificare accogliendo la potenza del sangue di Cristo che trasforma la nostra vita rendendola conforme alla sua.
Un cammino di festa dell’alleanza comporta perciò un rinnovamento della nostra adesione, della nostra libera volontà, per lasciare che il Signore porti a compimento quello che ha iniziato in noi: che l’alleanza che ci ha offerto e regalato diventi per noi il premio eterno, cioè la comunione piena con la sua persona, gioia senza fine alla sua presenza.
È nell’essere con lui nella pienezza dell’eternità che si compie l’alleanza, quando Dio sarà tutto in tutti e noi saremo veramente una cosa sola con lui. Ci è già stata data questa possibilità, siamo in via di santificazione. Questa è stata solo una tappa. Il cammino riprende, ed è importante che tendiamo alla meta sul monte per arrivare all’incontro con Dio. Dai piedi del monte, dove abitualmente incontriamo l’altare del sacrificio, tendiamo alla vetta per incontrare il Signore di persona ed essere sempre con lui.
Di tutti i tuoi benefici ti rendiamo grazie,
o Padre onnipotente,
tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen
[1] Non molto tempo fa – in un linguaggio un po’ ricercato, ma frequente – la semplice matita era anche chiamata “lapis”.